«Mi hanno impedito di indagare»

Martedì 12 Febbraio 2019
«Mi hanno impedito di indagare»
LA POLEMICA
TREVISO «Qualcuno aveva interesse a che io non indagassi su Veneto Banca, forse per allungare determinati tempi perché si avvicinasse la prescrizione». Dopo che il consiglio disciplinare del Csm ha archiviato il procedimento e che anche la Cassazione si è espressa a suo favore sul presunto conflitto di interessi sollevato nei suoi confronti, il Procuratore della Repubblica di Treviso Michele Dalla Costa in un'intervista al Tgr Veneto torna a togliersi qualche sassolino dalla scarpa. La vicenda è quella della incompatibilità a occuparsi del crac della ex popolare alla luce dei rapporti che la moglie, Ippolita Ghedini (sorella dell'avvocato padovano Niccolò Ghedini), ha intrattenuto con la banca diretta da Vincenzo Consoli. «Consulenze che erano però per il recupero dei crediti incagliati - ha sempre sottolineato Dalla Costa - e che al tempo dei fatti erano delle mere proposte di incarico».
DIETRO LE QUINTE
Resta il fatto che, dopo l'esposto che era stato presentato, Dalla Costa aveva mollato il fascicolo Veneto Banca affidandolo al sostituto Massimo De Bortoli. Ora il Procuratore torna alla carica, aggiungendo altri dettagli. Ad esempio le strane manovre iniziate intorno poco dopo l'avvio dell'indagine, una aria strana che Dalla Costa avrebbe fiutato già nel 2014. A quel tempo - racconta - ricevetti un invito dall'allora presidente di Veneto Banca a partecipare ad una assemblea dei soci. Una richiesta quanto meno strana considerato il mio ruolo». La risposta fu ufficiale e venne protocollata: «Scrissi che avevo una posizione istituzionale che gli era ben nota e che quindi ritenevo inopportuna la mia presenza all'assemblea. E non ci andai». Poi arrivò il trasferimento dell'indagine a Roma, che chiese i faldoni relativi alle oltre 5 mila denunce presentate da risparmiatori e investitori che si sentivano truffati attraverso la vendita di titoli spacciati per sicuri e che invece, mentre i bilanci e il rating di Veneto Banca sprofondavano, crollarono da un valore di 40 euro a 50 centesimi l'una trascinando nel baratro migliaia di risparmiatori e aziende.
L'INERZIA
«Ma Roma - attacca Dalla Costa - ha tenuto le carte bloccate per due anni perchè i fascicoli sono tornati di fatto come li avevo iscritti io». Carte che furono nuovamente riassegnate alla Procura di Treviso 24 mesi dopo, quando il Tribunale della capitale accertò la competenza territoriale trevigiana. E una inchiesta, quella per la truffa, che è allora dovuta ripartire praticamente da zero e che solo ora sta arrivando in dirittura d'arrivo. A giorni infatti dovrebbe arrivare la chiusura delle indagini che puntano a chiarire tutte le responsabilità, partendo dai vertici per arrivare a quei direttori di filiale e responsabili dell'area commerciale che, per raccogliere quanto serviva a capitalizzare e far superare alla banca i controlli della Bce e Bankitalia, spinsero sull'acceleratore per vendere il più possibile anche forzando le procedure Consob.
ALTRI FRONTI
Nel frattempo il pubblico ministero De Bortoli ha aperto anche il fronte che riguarda le società che certificarono i bilanci, che si sospetta siano stati aggiustati proprio in funzione da un lato del collocamento azionario e dall'altro per convincere i soci ai vari aumenti di capitale di un istituto di credito che si voleva far credere ancora salvabile e che invece aveva le ore contate. Ma c'è dell'altro. Per Dalla Costa ora ci sono difficoltà anche a chiudere l'altra indagine, quella relativa ai reati di aggiotaggio e ostacolo alla vigilanza, istruita dalla Procura di Roma (dove era arrivata alla fase dell'udienza preliminare) ma che il gup della capitale ha rispedito a Treviso ancora una volta per competenza territoriale: «Ci sono problemi nel sistema informatico che si trasformano in difficoltà di natura organizzativa e che pesano non poco, considerata la mole di lavoro con cui deve rapportarsi il magistrato impegnato su tutto l'ampio fronte di Veneto Banca».
Denis Barea
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