«Il vero caporale è ancora a piede libero»

Venerdì 10 Luglio 2020
«Il vero caporale è ancora a piede libero»
L'UDIENZA
TREVISO «Ero solo una pedina, il vero sfruttatore è un altro. Ed è ancora libero». Si è difeso così ieri il pakistano Ali Usman nel corso dell'udienza davanti al gup di Treviso. L'uomo è a processo, con il rito abbreviato condizionato alle sue dichiarazioni, e deve difendersi dall'accusa di sfruttamento di lavoratori in condizioni di bisogno. Il 27enne venne arrestato il 4 dicembre scorso. Titolare di una ditta individuale e regolarmente iscritto alla Camera di Commercio di Treviso Usman avrebbe costretto diciotto connazionali, tutti rifugiati o in attesa della definizione dello status, 12 dei quali totalmente in nero, a essere impiegati nella potatura dei vigneti di decine di aziende vitivinicole della zona, con le quali l'imprenditore aveva sottoscritto regolari contratti.
L'ACCUSA
Quello che non sarebbe stato regolare era il modo in cui trattava i suoi dipendenti, alloggiati in condizioni disumane, in un casolare di campagna di via Brian, a Cessalto. Ma nel corso della deposizione Usman ha puntato il dito su un secondo uomo, un pakistano 30enne ancora attivo nelle zone di Treviso e dell'hinterland, che sarebbe il vero caporale e che è stato denunciato per aver utilizzato il suo nome senza che il 27enne ne fosse consapevole. «Io - ha detto - ero soltanto il più vecchio, lavoravo nei campi già da un paio di anni. Essendo quello con più esperienza spiegavo agli altri cosa fare e come. In realtà lavoravamo tutti in nero, anche io come loro. E non c'era nessuno sfruttamento, di certo non da parte mia. 5 euro all'ora era quanto riuscivo a contrattare con le aziende presso cui andavamo a lavorare nella stagione della vendemmia».
RAGGIRATO
Usman ha riferito di «essere stato indotto dal connazionale a sottoscrivere dei pezzi di carta convinto che fossero regolari accordi di lavoro quando invece si trattava di contratti di noleggio di furgoni che venivano utilizzati per il trasporto dei pakistani nei campi per lavorare». «Non mi sono arricchito - ha ripetuto - anche io ho sempre lavorato in nero perché queste erano le condizioni per poter guadagnare qualche cosa. Quell'uomo veniva ogni tanto a dare i soldi, pochi o tanti che fossero, e li consegnava a me perché io ero il più anziano del gruppo. C'è qualcuno che ha confuso i ruoli ma io mangiavo con gli altri e dormivo nelle stesse esatte condizioni di tutti». Ma per i 18 braccianti era Usmaini che li forzava a orari massacranti da portare a termine senza l'abbigliamento adatto per il lavoro nei campi, anzi costretti malgrado le temperature invernali a stare in maglietta a maniche corte. «Eravamo pagati 5 euro all'ora ma non sempre i soldi arrivavano regolarmente. E poi venivamo costretti a versare soldi per il vitto e l'alloggio in una topaia fredda, sporca e diroccata» hanno raccontato durante l'incidente probatorio. I carabinieri avevano messo fine alla sfruttamento dei lavoratori immigrati con indagini avviate a fine ottobre; i militari dell'Arma si erano insospettiti dal via vai quotidiano di due furgoni, che poi sarebbero risultati privi di copertura assicurativa, mai revisionati e guidati da persone senza patente. A incastrare il pakistano sono stati prima i pedinamenti e poi le testimonianze dei poveretti che Usmani riduceva in una condizione di sostanziale schiavitù, ospitati - si fa per dire - nel casolare-lager con un unico bagno, privi di riscaldamento, materassi a terra come letti, le stanze ricoperte di sporcizia. Si torna in aula il 23 luglio per la discussione.
Denis Barea
© RIPRODUZIONE RISERVATA
© RIPRODUZIONE RISERVATA

PIEMME

CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ

www.piemmemedia.it
Per la pubblicità su questo sito, contattaci