IL REPORTAGE
CASIER «Nemmeno il prefetto può ordinare al virus di non

Sabato 8 Agosto 2020
IL REPORTAGE
CASIER «Nemmeno il prefetto può ordinare al virus di non uscire da quelle quattro mura. Abbiamo paura». Attorno all'ex caserma Serena si vive così, aspettando che qualcosa accada tra il timore costante e la rassegnazione che, tanto, nulla cambierà. «Sono cinque anni che viviamo così», allarga le mani un residente volgendo lo sguardo a quelle quattro mura divise tra Casier e Treviso non proprio equamente: la maggior parte del centro d'accoglienza è nel territorio del piccolo comune, mentre l'ingresso e una piccola porzione, e quindi l'indirizzo ufficiale, ricadono appieno nel capoluogo. Ma al di là delle questioni geografiche, resta il caso di un quartiere perennemente sospeso, che non riesce a darsi pace, costantemente in ansia. E del resto non è semplice restare tranquilli se davanti casa stazionano perennemente camionette antisommossa, agenti e militari a guardia di maxi-focolaio di quel virus che sta terrorizzando il mondo. La sensazione continua è che qualcosa debba accadere da un momento all'altro. Basta un niente, un minimo movimento perché tutti si agitino. Basta che un gruppetto di carabinieri si muova per tenere sotto controllo l'arrivo di due infermieri dell'Usl incaricati di rifare alcuni tamponi, che subito il livello d'attenzione si alza; è sufficiente passare un po' troppo vicini alle mura dell'ex caserma che un agente in borghese a bordo di un scooter si avvicini per chiedere cortesemente: «Chi siete?». La Serena è blindata, nessuno può entrare e nessuno può uscire. Ma nemmeno avvicinarsi troppo. E il controllo è sia palese, che più nascosto. Il clima costantemente teso. E non finirà presto. Il prefetto Maria Rosaria Laganà precisa che il dispositivo di sicurezza rimarrà inalterato fino a fine mese. Almeno.
ALLA FINESTRA
I ragazzi, da dentro, osservano. Se possono stanno affacciati alle finestre, fanno riprese col telefonino, scambiano qualche battuta. Guardano fuori, magari sognando di poter uscire: «Non ce la facciamo più a stare qui dentro, siamo stanchi», ti dicono dall'alto. Ma non c'è via d'uscita: 244 positivi al Covid su poco più di 300 persone sono un motivo più che sufficiente per essere costretti a restare dentro. E nessuno ha intenzione di liberarli prima che anche l'ultimo dei positivi sia tornato negativo. E dire che la convivenza tra ospiti e residenti, seppure a piccola passi, si stava facendo strada. La diffidenza reciproca stava lasciando il passo alla conoscenza. Per dire: l'elettrauto della zona ha assunto un richiedente asilo particolarmente abile con i motori. I residenti hanno cominciato ad apprezzare tanti di quei giovani venuti da chissà dove e da anni ormai costretti a vivere in una realtà parallela. «Prima della quarantena - racconta la signora Laura - li incontravi per strada e ti salutavano, sempre gentili. Chi diceva di essere elettricista, chi meccanico, chi abile nel lavorare la terra. Erano sbigottiti da non aver la possibilità nemmeno di cercarsi un lavoro, di dover stare lì dentro ad aspettare». Poi l'ondata di contagi ha spazzato via tutto. Ed è tornata la paura.
LO SFOGO
«Sono ormai cinque anni che viviamo in questa situazione», ammette Domenico Piccoli, storico portavoce dei residenti. L'ex caserma è al di là della strada, a una cinquantina di metri dal suo splendido orto. Chiede sicurezza: «Ci dicono di non aver paura, ma come si fa? Il contagio può sempre avvenire. Hanno poco da dire. Il punto è che non si doveva arrivare a questa situazione. Qui eravamo tutti rassegnati all'idea che l'ex caserma si sarebbe trasformata in un focolaio. Era inevitabile. E adesso come possiamo essere sicuri che nessuno di noi sarà contagiato? Siamo anziani: chi ci assisterà se qualcuno si prenderà il virus? Anche quei ragazzi sono vittime, costretti a stare in quel posto. Inutile negarlo: abbiamo paura».
P. Cal.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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