Deriso a scuola: chiuso in casa da 7 anni

Venerdì 15 Marzo 2019
Deriso a scuola: chiuso in casa da 7 anni
LA STORIA
TREVISO «A scuola mi chiamavano lebbroso. Mi sono barricato in camera mia. Vivo chiuso in casa da 7 anni, l'unico luogo in cui mi sento al sicuro». Trevigiano, 23 anni, Marco è un Hikikomori: ha scelto di isolarsi da una società che non ha saputo capire le sue fragilità. Nato in Giappone negli anni Novanta, il fenomeno Hikikomori colpisce prevalentemente ragazzi maschi dai 19 ai 30 anni. La separazione dei genitori, la dermatite dolorosa ed evidente, le pressioni da parte degli insegnanti hanno portato Marco ad allontanarsi progressivamente dalla dimensione sociale.
IL RACCONTO
«Soffro di una dermatite cronica. Ma nessuno capiva la mia difficoltà. Nè gli insegnanti, nè i miei compagni. Poi ho iniziato ad ingrassare: mi chiamavano ciccione lebbroso». Marco ha scelto, con coraggio, di raccontare la sua storia in Hikikomori Italia, il format ideato da Marco Crepaldi, dove i ragazzi in isolamento sociale hanno la possibilità di raccontare, senza censure, la propria esperienza. «Stavo male, avvertivo continuamente prurito, ma nessuno mi credeva» afferma Marco nella videointervista. Le prime avvisaglie alla scuola media. Per Marco rispondere al modello di studente attivo era sempre più difficile, anche a causa del costante disagio fisico. «Mi sentivo un soldato, non avevo modo di approfondire con tranquillità nulla». Ansia e continue pressioni esterne hanno portato il ragazzo trevigiano a barricarsi nella sua camera. «Ero stato ricoverato all'ospedale a causa della dermatite. Mi sono detto: finalmente mi crederanno. Ma appena rientrato mia madre mi ha detto di tornare a scuola. Lì sono andato in crisi: sono salito in camera e ho chiuso la porta con il letto». Il percorso di Hikikomori parte da lì. Mesi in casa, completamente off line, a leggere, dormire e guardare serie tv. Poi un lento rientro: così fino al secondo anno di superiori e alla seconda bocciatura. «Mi sono ritrovato bloccato, in un contesto in cui venivo sempre giudicato e mai compreso. A scuola i compagni mi deridevano, ho lasciato la scuola». Anni bui. «I miei genitori si sono separati: uno dei motivi frequenti di lite erano i miei problemi. Posso dire di sentirmi in colpa per questo».
LA CURA
I rapporti con la madre, con cui Marco vive a Treviso insieme alla sorella, si sono modificati nel tempo. «Ha scoperto l'associazione Hikikomori, ha realizzato che ci sono diversi ragazzi italiani che soffrono di questo disturbo e abbiamo iniziato a comunicare di nuovo. Con mia sorella il rapporto è più difficile. Ha 16 anni non capisce queste dinamiche, forse si vergogna di me. E non mi sento di biasimarla». Un ingrediente fondamentale di questa assenza di prospettive è la depressione. «Ne soffro purtroppo, e la tentazione di aggrapparmi al cibo è sempre forte». Marco è un ragazzo molto intelligente, ha sviluppato una capacità di introspezione notevole, tratto-questo-tipico degli Hikikomori. «Non sono credente, ritengo che la scuola per come l'ho vissuta io mi abbia isolato. Ho cercato di compensare con l'autoinformazione. Ma mi rendo conto di vivere senza scopi». Le pressioni lo hanno messo in difficoltà anche con le ragazze. «Mi chiamavano zombie lebbroso e questa cosa mi ha bloccato. Nel gaming non ho alcuna difficoltà ad interagire con l'altro sesso, ma ho paura del contatto fisico». Negli ultimi due anni la situazione del ragazzo trevigiano sta lentamente cambiando. «Grazie al web, che è la mia porta sulla realtà, mi sono avvicinato al mondo del gaming. Sono allenatore di un team di 6 persone di Overwatch, un videogioco sviluppato da Blizzard. Non è un vero e proprio lavoro, ma guadagno qualcosa». Marco ha accettato di raccontare la sua storia per parlare ai ragazzi che condividono il suo stesso problema. «La gente non ci capisce, noi continuiamo a sentirci inutili e mai all'altezza dei nostri coetanei. Ma l'Hikikomori è un'autodifesa».
Elena Filini
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