Una tragedia della depressione

Domenica 16 Febbraio 2020
IL GIORNO DOPO
ROVIGO «Il dispiacere è grande, si sentivano vecchi», come se vecchio fosse un peso che grava sull'anima. All'indomani della tragedia che ha colpito via Gramsci, la morte di Tino Bellinello e la moglie Renata Berto, nel vicinato di via Gramsci 45 resta l'incredulità per un gesto che ha sconvolto la vita di molte persone, in primis dei figli e dei nipoti della coppia anziana. È difficile per tutti parlare di una storia che ha a che fare con la depressione, con il bisogno così forte di concludere un'esistenza che ha lasciato tanti ricordi positivi in tutto il territorio. Mentre i figli scelgono il raccoglimento e declino il rispondere a domande, Tino e Renata vengono ricordati dal quartiere come «brave persone», «gran lavoratori», affetti purtroppo dal male della depressione. «È stata la depressione ad agire, nessuno ha colpa», dicono i vicini. «Sentivano il peso di essere vecchi» aggiunge un conoscente al bar Sport dove ieri si è parlato molto dell'accaduto.
IL PROBLEMA
«A volte ci sente soli dentro, non perché non ci siano persone vicino a noi»: con queste parole don Enrico Turcato, responsabile delle comunicazione della diocesi, abbraccia idealmente la famiglia della coppia, i figli e i nipoti della coppia. «Non è facile intervenire su una situazione che tocca nel vivo situazioni così intime. Molti anziani, nel tempo che viviamo, fatto di forti mutamenti sociali, sentono di invecchiare in una società che tende a rimanere giovane. Oggi l'anziano rimane fuori dalla vita sociale perché fisicamente limitato dall'età o da patologie, e tende a soffrire di profonda solitudine anche se intorno ha i suoi familiari. La solitudine non è mancanza di persone ma uno stato d'animo di non condivisione».
Colpisce il fatto, conclude don Turcato, «che in questi casi le persone attorno non si accorgono della solitudine profonda di queste persone. Non ci sono colpe, la solitudine non è dovuta all'assenza delle persone, ma alla mancanza di relazioni profonde. La sfida, per la Chiesa e la società civile, è creare luoghi, spazi e tempi di relazione per tutte le età che mettano le persone in grado di comunicarsi e condividere le esperienze che vivono e che non sono sempre storie di bellezza e ricchezza».
L'ESPERTA
Dare una lettura al caso specifico di Tino e Renata è impossibile, ma ha senso parlarne in logica di prevenzione, dato che ci sono situazioni che rendono più alto il rischio di suicidio, soprattutto tra gli anziani. Sul piano psicologico sono vari i motivi che alzano il rischio di gesti estremi come quello accaduto il giorno di San Valentino. Il primo è la presenza di patologie croniche, invalidanti o terminali. Lo spiega la psicologa e psicoterapeuta Chiara Govoni: «A tutte le età la patologia cronica può comportare delle limitazioni dovute alla necessità di terapie regolari, limitazioni funzionali rispetto al ruolo sociale e al cambiamento di stile di vita specie dopo una vita attiva, per esempio negli sportivi. Queste provocano una modifica dell'immagine che si ha di se stessi, un ripensamento dell'immagine corporea che possiamo non accettare. Qualora non ci sia un'accettazione, la depressione diventa un'ulteriore complicanza e determina aumento del rischio di ospedalizzazione, non aderenza terapeutica ed eventi suicidari».
Intercettare questo stato di rifiuto e chiusura ai limiti non è cosa facile per un familiare o un conoscente, ecco perché spesso queste scelte lasciano incredulità nelle persone che rimangono. È il professionista, lo psicoterapeuta a farlo emergere. «Riconoscere e trattare psicologicamente aspetti depressivi legati alla malattia è utile per non sovraccaricare ulteriormente il corpo di farmaci; però ci sono anche livelli di depressione che vanno trattati da farmaci - spiega la psicologa - l'anziano in particolare, ma non solo, accetta difficilmente l'aiuto della psicoterapia perché il dolore e le malattie psicologiche sono cose che non si vedono e quindi sono di difficile accettazione».
IL RISCHIO
Un altro fattore di aumento del rischio, secondo la psicoterapeuta, è il fenomeno del mancato riconoscimento della legittimità di lamentarsi: a livello sociale non siamo disposti ad accettare la lamentela finendo con il reprimere la sofferenza. Infine, le limitazioni dovute all'età possono portare a sviluppare un enorme senso di colpa per non riuscire ad accudire i nostri cari. «Quando non si hanno più le forze per accudire una persona cara, ci si sente addosso un profondo senso di fallimento, di colpa. Lo psicologo americano James Hillmann, studioso del suicidio, parla di casi in cui si visualizza la fine non come una via d'uscita dalla vita, ma come ingresso alla morte, il bisogno di un nuovo inizio».
Roberta Paulon
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