LA STORIA
ROVIGO Due dei suoi compagni sono morti sotto i bombardamenti dell'esercito

Lunedì 19 Febbraio 2018
LA STORIA ROVIGO Due dei suoi compagni sono morti sotto i bombardamenti dell'esercito
LA STORIA
ROVIGO Due dei suoi compagni sono morti sotto i bombardamenti dell'esercito turco che dal 20 gennaio sta conducendo un'operazione militare contro Afrin, un terzo è rimasto ucciso a Deir ez-Zor, dove è ancora in corso una campagna per estirpare le ultime resistenze dell'Isis. Marco Gelhat, il 23enne rodigino che da settembre combatte a fianco dei curdi e che attualmente si trova proprio ad Afrin, non era con i due compagni uccisi dalle bombe turche, perché impegnato in una missione di protezione dell'ospedale locale. Ma quel raid, secondo quanto raccontato allo zio Giuliano Giovannini, era destinato proprio a colpire la brigata internazionale di cui fa parte, un gruppo di volontari che arrivano da ogni parte del mondo, Italia compresa, con un romano, un fiorentino e, appunto, un rodigino, per difendere la rivoluzione del Rojava, la regione del Kurdistan occidentale, nella Siria del nord, teatro oltre che della guerra di liberazione dallo Stato Islamico, con la vittoria sull'Isis, anche dal gioco della sharia nell'ambito dell'esperimento politico del cosiddetto «confederalismo democratico» ed oggi sotto attacco da parte della Turchia.
BRIGATA INTERNAZIONALE
«Hanno ammazzato con bombardamenti due della brigata internazionale, uno spagnolo, Baran Galicia, e il capo squadra di mio nipote, francese, Kendal Breizh, che li aveva guidati da Deir ez-Zor fino ad Afrin, per prendere parte alla difesa della città assediata», spiega Giovannini. Il terzo combattente internazionale rimasto ucciso, l'olandese Baran Sason, sempre secondo i nomi di battaglia che si sono dati, è morto a Deir ez-Zor, dove Marco Gelhat ha combattuto al suo fianco fino al momento in cui ha scelto, a fine gennaio, di raggiungere Afrin con altri compagni, fra i quali proprio Baran Galicia e Kendal Breizh, di fatto il suo comandante, quello che compariva insieme a lui, a volto scoperto, nelle prime foto circolate il mese scorso.
«Ho appena sentito mio nipote, fisicamente sta bene ma aveva difficoltà a parlare racconta ancora lo zio La sua determinazione è fortissima. Tutto risale al 10 febbraio, ma solo nelle ultime ore la notizia è stata resa pubblica. Quel giorno lui visitava l'ospedale di Afrin e loro erano in una località vicina». Giovannini, che sabato era in prima fila alla manifestazione nazionale di Roma, organizzata con lo slogan Defend Afrin, non nasconde la propria angoscia per quanto sta accadendo, sottolineando come «l'Europa non piange per questi giovani dai grandi ideali uccisi dalle bombe Nato sganciate dall'esercito di Erdogan. Sono morti perché da antifascisti sono andati ad aiutare il popolo curdo. Come mi ha spiegato mio nipote, non hanno copertura aerea e per questo i Turchi bombardano in continuazione. Tutti li hanno abbandonati».
VITA A RISCHIO
Giovannini racconta come questi ultimi avvenimenti siano letti con grande timore anche da sua sorella, la madre di Marco Gelhat: «Soffre in silenzio ed è molto preoccupata». Marco Gelhat, qualche giorno fa aveva inviato un messaggio chiaro: «C'è il pericolo che non possiamo più tornare indietro. Ci teniamo, se torniamo vivi, ad essere testimoni di questo popolo e di tutto quello che sta accadendo, perché questo è un genocidio su larga scala». Ed il messaggio inviato allo zio proprio ieri, conferma che non arretra di un passo: «Zio non ci fermiamo, i turchi devono sapere che lotteremo fino alla vittoria».
Francesco Campi
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