GRANZETTE
ROVIGO Doveva portare energia per riempire le case degli italiani di elettrodomestici. Invece, il 9 ottobre 1963 la diga del Vajont portò duemila morti, 3 condanne e 5 assoluzioni dopo il primo grado di un processo che arrivò in Cassazione dopo sette anni e mezzo. Si contarono anche 30 mila firme contro la prima sentenza che - secondo i commenti dell'epoca - ammazzò per la seconda volta le vittime. E poi ci vollero 30 anni per chiudere il contenzioso civile.
I numeri della tragedia non bastano a raccontarla, anche se è tutta nell'evidenza del numero dei condannati, colpevoli di inondazione aggravata dalla prevedibilità dell'evento, che in Cassazione furono 2 rispetto alle 1.917 vittime stimate, di cui solo 750 restarono in condizioni da poter essere identificate.
L'EROE DEL FANGO
Tra i primi a portare i soccorsi c'era Vittorio Sandonà, ieri ospite a Rovigo all'inaugurazione della mostra Vajont, l'onda della morte, che l'associazione I luoghi dell'abbandono ha allestito nel padiglione 7 dell'ex ospedale psichiatrico di Granzette. L'onda provocata dalla frana del monte Toc si avvicinò a Casso, spazzò via alcune località di Erto e cadde su Longarone con 50 milioni di metri cubi d'acqua che ebbero effetti paragonabili alla bomba atomica di Hiroshima. «Avevo 17 anni ed ero volontario in artiglieria da montagna. Arrivammo a Longarone la sera del 10 ottobre - ha raccontato Vittorio - Ci avevano detto che era successa una disgrazia a Longarone, ma senza spiegarci niente. Non capimmo perché dovevamo andare senza il mitragliatore e lo schioppo. Solo badili e picconi. Arrivati, trovammo l'acqua per strada e dovemmo fermarci. Vedemmo le traversine della ferrovia piegate e i primi cadaveri furono quelli dei bambini». Vittorio ricorda anche che tra i compagni di leva c'erano due o tre ragazzi di Longarone: «Tentarono di ammazzarsi». I primi soldati ad arrivare avevano solo il picco, racconta Vittorio, il badile e le barelle. Niente maschere né guanti: «Mi ricordo che gli addetti alle sepolture ubriacavano i soldati con la grappa», come capitava nella Grande Guerra a chi doveva uscire dalla trincea. Vittorio Sandonà restò un mese a Longarone, spostandosi poi lungo il Piave per le ricerche: «Dovevamo cercare i dispersi: se col bastone toccavi qualcosa di molle, allora capivi». Al cimitero di Longarone i militari ricomposero anche i cadaveri che erano nelle tombe, spazzate via dall'onda della diga».
DOCUMENTI E INSTALLAZIONI
Alla mostra inaugurata ieri a Granzette sono protagonisti installazioni video, giornali d'epoca, planimetrie, schede su protagonisti come Giorgio Dal Piaz e Tina Merlin, Carlo Semenza, ieri impersonato da Remo Lenci, che ha partecipato insieme ad alcune comparse a ricordare i superstiti nell'idea del mare di fango realizzata al primo piano del padiglione 7. E c'è l'elenco dei 1.917 morti. Alla mostra (il contributo d'ingresso è di 5 euro) è consigliato l'uso di stivali di gomma. Apertura il sabato dalle 14 alle 18 e la domenica dalle 10 alle 18, gli stessi delle esposizioni I percorsi della pazzia e Il silenzio assordante di Chernobyl, in contemporanea a Vajont, l'onda della morte, nella struttura che l'associazione I luoghi dell'abbandono ha in comodato d'uso dall'Ulss 5 polesana.
Nicola Astolfi
© RIPRODUZIONE RISERVATA ROVIGO Doveva portare energia per riempire le case degli italiani di elettrodomestici. Invece, il 9 ottobre 1963 la diga del Vajont portò duemila morti, 3 condanne e 5 assoluzioni dopo il primo grado di un processo che arrivò in Cassazione dopo sette anni e mezzo. Si contarono anche 30 mila firme contro la prima sentenza che - secondo i commenti dell'epoca - ammazzò per la seconda volta le vittime. E poi ci vollero 30 anni per chiudere il contenzioso civile.
I numeri della tragedia non bastano a raccontarla, anche se è tutta nell'evidenza del numero dei condannati, colpevoli di inondazione aggravata dalla prevedibilità dell'evento, che in Cassazione furono 2 rispetto alle 1.917 vittime stimate, di cui solo 750 restarono in condizioni da poter essere identificate.
L'EROE DEL FANGO
Tra i primi a portare i soccorsi c'era Vittorio Sandonà, ieri ospite a Rovigo all'inaugurazione della mostra Vajont, l'onda della morte, che l'associazione I luoghi dell'abbandono ha allestito nel padiglione 7 dell'ex ospedale psichiatrico di Granzette. L'onda provocata dalla frana del monte Toc si avvicinò a Casso, spazzò via alcune località di Erto e cadde su Longarone con 50 milioni di metri cubi d'acqua che ebbero effetti paragonabili alla bomba atomica di Hiroshima. «Avevo 17 anni ed ero volontario in artiglieria da montagna. Arrivammo a Longarone la sera del 10 ottobre - ha raccontato Vittorio - Ci avevano detto che era successa una disgrazia a Longarone, ma senza spiegarci niente. Non capimmo perché dovevamo andare senza il mitragliatore e lo schioppo. Solo badili e picconi. Arrivati, trovammo l'acqua per strada e dovemmo fermarci. Vedemmo le traversine della ferrovia piegate e i primi cadaveri furono quelli dei bambini». Vittorio ricorda anche che tra i compagni di leva c'erano due o tre ragazzi di Longarone: «Tentarono di ammazzarsi». I primi soldati ad arrivare avevano solo il picco, racconta Vittorio, il badile e le barelle. Niente maschere né guanti: «Mi ricordo che gli addetti alle sepolture ubriacavano i soldati con la grappa», come capitava nella Grande Guerra a chi doveva uscire dalla trincea. Vittorio Sandonà restò un mese a Longarone, spostandosi poi lungo il Piave per le ricerche: «Dovevamo cercare i dispersi: se col bastone toccavi qualcosa di molle, allora capivi». Al cimitero di Longarone i militari ricomposero anche i cadaveri che erano nelle tombe, spazzate via dall'onda della diga».
DOCUMENTI E INSTALLAZIONI
Alla mostra inaugurata ieri a Granzette sono protagonisti installazioni video, giornali d'epoca, planimetrie, schede su protagonisti come Giorgio Dal Piaz e Tina Merlin, Carlo Semenza, ieri impersonato da Remo Lenci, che ha partecipato insieme ad alcune comparse a ricordare i superstiti nell'idea del mare di fango realizzata al primo piano del padiglione 7. E c'è l'elenco dei 1.917 morti. Alla mostra (il contributo d'ingresso è di 5 euro) è consigliato l'uso di stivali di gomma. Apertura il sabato dalle 14 alle 18 e la domenica dalle 10 alle 18, gli stessi delle esposizioni I percorsi della pazzia e Il silenzio assordante di Chernobyl, in contemporanea a Vajont, l'onda della morte, nella struttura che l'associazione I luoghi dell'abbandono ha in comodato d'uso dall'Ulss 5 polesana.
Nicola Astolfi