GRANZETTE
ROVIGO Doveva portare energia per riempire le case degli italiani di

Domenica 22 Settembre 2019
GRANZETTE ROVIGO Doveva portare energia per riempire le case degli italiani di
GRANZETTE
ROVIGO Doveva portare energia per riempire le case degli italiani di elettrodomestici. Invece, il 9 ottobre 1963 la diga del Vajont portò duemila morti, 3 condanne e 5 assoluzioni dopo il primo grado di un processo che arrivò in Cassazione dopo sette anni e mezzo. Si contarono anche 30 mila firme contro la prima sentenza che - secondo i commenti dell'epoca - ammazzò per la seconda volta le vittime. E poi ci vollero 30 anni per chiudere il contenzioso civile.
I numeri della tragedia non bastano a raccontarla, anche se è tutta nell'evidenza del numero dei condannati, colpevoli di inondazione aggravata dalla prevedibilità dell'evento, che in Cassazione furono 2 rispetto alle 1.917 vittime stimate, di cui solo 750 restarono in condizioni da poter essere identificate.
L'EROE DEL FANGO
Tra i primi a portare i soccorsi c'era Vittorio Sandonà, ieri ospite a Rovigo all'inaugurazione della mostra Vajont, l'onda della morte, che l'associazione I luoghi dell'abbandono ha allestito nel padiglione 7 dell'ex ospedale psichiatrico di Granzette. L'onda provocata dalla frana del monte Toc si avvicinò a Casso, spazzò via alcune località di Erto e cadde su Longarone con 50 milioni di metri cubi d'acqua che ebbero effetti paragonabili alla bomba atomica di Hiroshima. «Avevo 17 anni ed ero volontario in artiglieria da montagna. Arrivammo a Longarone la sera del 10 ottobre - ha raccontato Vittorio - Ci avevano detto che era successa una disgrazia a Longarone, ma senza spiegarci niente. Non capimmo perché dovevamo andare senza il mitragliatore e lo schioppo. Solo badili e picconi. Arrivati, trovammo l'acqua per strada e dovemmo fermarci. Vedemmo le traversine della ferrovia piegate e i primi cadaveri furono quelli dei bambini». Vittorio ricorda anche che tra i compagni di leva c'erano due o tre ragazzi di Longarone: «Tentarono di ammazzarsi». I primi soldati ad arrivare avevano solo il picco, racconta Vittorio, il badile e le barelle. Niente maschere né guanti: «Mi ricordo che gli addetti alle sepolture ubriacavano i soldati con la grappa», come capitava nella Grande Guerra a chi doveva uscire dalla trincea. Vittorio Sandonà restò un mese a Longarone, spostandosi poi lungo il Piave per le ricerche: «Dovevamo cercare i dispersi: se col bastone toccavi qualcosa di molle, allora capivi». Al cimitero di Longarone i militari ricomposero anche i cadaveri che erano nelle tombe, spazzate via dall'onda della diga».
DOCUMENTI E INSTALLAZIONI
Alla mostra inaugurata ieri a Granzette sono protagonisti installazioni video, giornali d'epoca, planimetrie, schede su protagonisti come Giorgio Dal Piaz e Tina Merlin, Carlo Semenza, ieri impersonato da Remo Lenci, che ha partecipato insieme ad alcune comparse a ricordare i superstiti nell'idea del mare di fango realizzata al primo piano del padiglione 7. E c'è l'elenco dei 1.917 morti. Alla mostra (il contributo d'ingresso è di 5 euro) è consigliato l'uso di stivali di gomma. Apertura il sabato dalle 14 alle 18 e la domenica dalle 10 alle 18, gli stessi delle esposizioni I percorsi della pazzia e Il silenzio assordante di Chernobyl, in contemporanea a Vajont, l'onda della morte, nella struttura che l'associazione I luoghi dell'abbandono ha in comodato d'uso dall'Ulss 5 polesana.
Nicola Astolfi
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