Spaccio, il covo dei nigeriani nascosto nel centro migranti

Giovedì 12 Luglio 2018
L'INCHIESTA
MESTRE La piovra nera arriva da lontano. Nata nel cuore dell'Africa, in Nigeria, salpata dalle coste della Libia, per poi approdare in Italia via mare e ricreare il proprio habitat nei centri di accoglienza. Perché non tutti i migranti sono spacciatori, ma (quasi) tutti gli spacciatori dell'eroina gialla sono migranti. Il 90 per cento delle 41 ordinanze di custodia cautelare richieste dalla procura di Venezia, che sono alla base della maxi operazione della polizia nell'area della stazione di Mestre, ha infatti come destinatario dei richiedenti asilo. La spettacolare retata di martedì, che ha visto coinvolti 500 agenti, ha portato (finora) a 28 arresti, 12 espulsioni, 4 Daspo urbani e alla chiusura di 3 locali. L'organizzazione criminale scoperta dalla Dda, coordinata dal pubblico ministero Paola Tonini, era organizzata su più livelli e composta solamente da nigeriani. Il clan importava la droga dalla Francia e dall'Olanda grazie a degli ovulatori, che poi consegnavano la merce nei vari centri di stoccaggio. Quattro, quelli individuati: tre abitazioni a Robegano, Favaro Veneto e Dolo (Venezia), e il centro di accoglienza di Dosson di Casier (Treviso), l'ex caserma Serena. Qui, stando alle intercettazioni telefoniche, la droga veniva conservata, tagliata e confezionata. Da lì, i nigeriani si spostavano a Mestre, tra via Trento e via Monte San Michele, sede del più grande centro commerciale a cielo aperto dell'eroina di tutto il Veneto.
LA STRUTTURA
L'organizzazione criminale era strutturata su tre livelli. Al vertice della piramide il capo dei capi (che al momento risulta ancora ricercato): era lui a gestire i rapporti con le organizzazioni stranieri tra Francia, Spagna e Olanda. Ed era sempre lui a organizzare, coordinare e dirigere l'operato dei componenti del secondo livello, incaricati di ricevere lo stupefacente importato e di distribuirlo agli spacciatori sul territorio. I due alfieri del secondo livello, di cui fa parte Emanuel Obaraye, difeso dall'avvocato veneziano Mauro Serpico, dovevano custodire la droga nei quattro depositi. Obaraye, che era stato ospite all'ex Serena, era il raccordo con il centro di accoglienza trevigiano. «Si comportano come se fossero impiegati che osservano orari e giorni lavorativi», scrive nell'ordinanza il gip Marta Paccagnella. Ogni sera, i ragazzi inviavano una relazione dettagliata al capo. Il terzo livello è l'ultimo anello della catena, i cavalli: spacciatori di strada, che suddividevano l'eroina in ovuli termosaldati e che li rivendevano ai clienti a 20 euro a dose. Le telecamere della questura, negli ultimi mesi, hanno documentato oltre 300 episodi di spaccio tra via Monte San Michele e via Trento. Si ripartivano in due gruppi, Nosa e Portici, per individuare le aree dove si poteva lavorare al sicuro da occhi indiscreti. Il ricavato veniva girato poi a Nosakhare Eduzola, 31 anni, titolare di un negozio di parrucchiera in via Monte San Michele. Quell'attività, in realtà, era un copertura che serviva all'organizzazione per riciclare il denaro sporco.
LE REAZIONI
«L'arresto dei piccoli spacciatori non serve purtroppo a fermare il fenomeno perché vengono sostituiti rapidamente, grazie ad un gran numero di persone disperate, disponibili in quanto non hanno nulla da perdere a delinquere - ha precisato ieri il procuratore capo di Venezia, Bruno Cherchi, nel corso della conferenza stampa sull'operazione - Abbiamo dunque deciso di applicare gli arresti differiti per risalire alla fonte dello spaccio». Soddisfatto il questore Danilo Gagliardi: questa è la sua risposta alle richieste di sicurezza della città. «Noi abbiamo liberato quegli spazi - ha aggiunto - ora sta ai cittadini occuparli di nuovo, prima che qualcun altro decida di prendere possesso dell'area al posto dei nigeriani». Loro, quella zona, se l'erano presa con la forza, strappandola all'etnia dominante precedente, i tunisini. Adesso, Mestre ha un'occasione d'oro per dare un nuovo volto a quell'area da anni al centro delle polemiche.
PROSSIMI PASSI
L'operazione, come sottolineato dal questore, ha tolto dalla strada una sessantina di pusher. Le accuse nei confronti degli arrestati sono pesanti, considerato, soprattutto, la componente del reato associativo. Gli espulsi sono stati portati in macchina o in aereo (su un volo messo a disposizione dalla guardia di finanza) al Cpr di Bari: verranno rimpatriati. E qui va in scena la seconda impresa dell'operazione. Perché con la Nigeria, la gestione delle espulsioni è particolarmente delicata. I problemi sono, soprattutto, di tipo organizzativo-burocratico. Lo straniero espulso, va identificato e deve essere riconosciuto dal Paese d'origine che, in caso di mancanza di documento, fornisce un passaporto provvisorio. I rapporti con i consolati possono essere più o meno complessi a seconda delle diverse disponibilità. Con la Nigeria, appunto, è una corsa a ostacoli. Prima di tutto per il numero di pratiche, che non vengono gestite da consolati periferici ma solo dall'ambasciata, a Roma. Questo significa che qui si concentrano le pratiche di tutta Italia, con tempi biblici di attesa. Altra questione importante: qui, come in gran parte dei paesi africani non c'è una vera e propria anagrafe, e quella che c'è è talmente recente da non essere aggiornata. Gran parte delle registrazioni, infatti, hanno un'unica data: 1. gennaio, cambia solo l'anno. In caso di omonimia nello stesso anno di nascita, quindi, servono ulteriori e approfondite verifiche per accertare l'identità del respinto. E i tempi, inevitabilmente, si dilatano.
Davide Tamiello
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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