Soldi e partiti, tutti i rischi del populismo giudiziario

Venerdì 13 Dicembre 2019
Carlo Nordio
Nella sua appassionata apologia al Senato, Matteo Renzi ha citato il noto ammonimento dell'onorevole Moro di quarant' anni fa, che la Dc non si sarebbe fatta processare in piazza. Questa frase peraltro non ha portato fortuna né al suo autore né al suo partito, travolto il primo dall'odio delle Br e il secondo dagli scandali di tangentopoli. Ora, Renzi non è Moro, Italia Viva non è la Democrazia Cristiana, e il terrorismo è finito. Il paragone con Moro, finisce dunque qui.
Al netto di questa rievocazione forse troppo audace, l'energica reazione di Renzi contiene un'aspra critica all'uso improprio delle indagini giudiziarie, intese anche come arma per estromettere gli avversari che non si riescono a battere con le elezioni. Ed infatti l'ex premier ha lamentato le ripetute violazioni del segreto d'ufficio, l'uso disinvolto delle intercettazioni e delle perquisizioni, e più in generale la pretesa dei giudici di «decidere che cosa è un partito e cosa no».
Insomma, un attacco in piena regola contro quella che da venticinque anni viene denunciata come un'indebita invasione delle toghe nel campo della politica. Un critico severo potrebbe domandare a Renzi che cosa abbia fatto, quando ne aveva le possibilità, per rimediare a questa anomalia.
Una anomalia che su queste pagine denunciamo da anni.
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