«Sei anni di calvario inutile Resta un segno indelebile»

Venerdì 22 Giugno 2018
«Sei anni di calvario inutile Resta un segno indelebile»
Franco Birolo risponde come sempre: gentile, la voce ferma e le parole misurate. Mai un accento di troppo, mai una frase fuori posto. Nemmeno adesso, che il mostro è alle spalle e il baratro non fa più paura.
Come sta signor Birolo?
«Mercoledì sera l'avvocato Martellato mi ha detto della sentenza della Cassazione, ho aspettato tranquillo, ho tirato un sospiro di sollievo e adesso è veramente finita. O almeno, c'è ancora tempo per fare cause civili e quindi riaprire la ferita, ma il processo penale si è concluso e mi ha dato ragione. Sono sollevato per me ma anche per la mia famiglia: questi sei anni sono stati duri. È finita, sì, ma ci sono stati più di sei anni di precedenti. Sono sei anni di calvario giudiziario dove io e la mia famiglia abbiamo sofferto e penato, vivevamo con uno stress pazzesco. Quanto mi è costato? Non chiedermelo dai».
Sei anni di inchieste, udienze, ricorsi. Cosa le resta di tutto questo?
«Sia nel primo che nel secondo grado di giudizio l'accusa chiedeva la mia assoluzione, non c'era motivo di continuare, si poteva chiudere prima e invece ci si è accaniti. Siamo andati oltre ogni motivo logico per arrivare a quel punto di partenza che tutti sapevamo. Mi resta il segno indelebile che ho tolto la vita a una persona, ha cambiato la vita mia e della mia famiglia».
I processi hanno un costo, anche e soprattutto economico. Lei sta per vendere la sua tabaccheria: e poi?
«Sì, sto chiudendo. Lo avevo annunciato a fine ottobre e credo che difficilmente arriverò oltre la metà di luglio. Vendere la tabaccheria non è solo la volontà di chiudere con quel tipo di passato per dedicarmi al piccolo campo che ho con la mia famiglia. È anche un modo per far fronte a tutte le spese. Non è che io sia ricco. Assieme al mio avvocato sto anche valutando di fare io una causa civile contro i familiari di Igor Ursu, per avere un ristoro dei danni patrimoniali e morali che ho subito in tutti questi anni. La tabaccheria l'ho riaperta con le mie forze dopo il furto e la spaccata e anche i costi di una buona difesa in tre gradi di giudizio hanno il loro peso».
Con tutto alle spalle, si sente di dire qualcosa alla famiglia di Ursu?
«Non ho nulla da dire a loro, come sono andate le cose lo dicono i tre processi che ci sono stati».
Il dibattimento di Padova però le aveva dato torto
«Forse quella sentenza era stata una sentenza affrettata, anche perché pure il pubblico ministero aveva chiesto l'assoluzione. Così come anche la procura generale in Corte d'Appello un anno dopo. Ripeto, forse non aveva senso andare avanti così tanto».
Attorno alla sua vicenda è nato un movimento, anche per via di altri fatti simili che si sono succeduti. Sente ancora quelle persone che le erano state così vicine all'inizio del tutto?
«Fatti del genere ti condizionano, ma ci sono alcune cose buone che rimangono per sempre: ho potuto conoscere delle persone splendide che sono state coinvolte in situazioni simili alla mia. Colleghi di sventura, li chiamo io. Ora sotto i riflettori c'è Walter Onichini ma come lui o come me ce ne potrebbero essere tanti tutti i giorni. Gli faccio un grosso in bocca al lupo, ci sentiamo spesso e quando ci troviamo tutti assieme ci scambiamo pareri e punti di vista. Anche oggi ho iniziato a sentirli».
Com'è cambiata la sua vita da quel giorno?
«Dormo sempre con un occhio aperto, ti torna sempre in mente l'episodio subìto».
E stanotte (quella della sentenza, tra mercoledì e giovedì) come ha dormito?
«Non ho dormito, è stato tutto un pensiero a quello che ho passato e che passerò. Attendevo la telefonata dell'avvocato, ero tranquillo perché so come sono andate le cose. Un bel sospiro me lo sono tirato. Ma non si è brindato, si sta solo un po' tranquilli».
Nicola Munaro
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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