La città in lacrime sotto lo scheletro: «Questo è il nostro Undici settembre»

Martedì 16 Aprile 2019
IL REPORTAGE
PARIGI «C'est glauque, c'est trop glauque, c'est glauque». Glauque è come i ragazzi francesi dicono terribile, triste, brutto. Il ragazzo ha una barbetta incolta da rockettaro, il giubbotto di pelle, con una mano spinge la bici, con l'altra tiene lo smartphone incollato all'orecchio. È carino, alla moda, forse per questo fa ancora più effetto vederlo scoppiare a piangere. Sta in mezzo a una folla silenziosa, che si ammucchia sulle rive della Senna, sull'ile Saint Louis, sul ponte d'Arcole non si riesce ad arrivare. Ha girato le spalle a quello che lo fa piangere, sicuramente suo malgrado: dietro di lui Notre Dame brucia.
LA CALCA
Quello che fa più impressione, a questa calca silenziosa che continua a riempire i bordi del fiume, sulla rive gauche e sulla rive droite, e i ponti, e i marciapiedi, non sono soltanto le fiamme, è quel buco nel cielo di Parigi. Non era mai stato vuoto lì, c'era quella freccia nera, appuntita, un po' insolente, una silhouette che si intravede sempre a sorpresa, dalla finestra di una chambre de bonne, dall'angolo della rue du Temple, alzando il naso sulla rue Saint Jacques. Quella punta che dice dove sta il centro di Parigi è stata prima ridotta a uno scheletro dalle fiamme e poi è venuta giù, come un disegno di cartone. «Come le torri gemelle» dice qualcuno. «Non c'è più niente, non c'è più niente» mormora una signora. Impossibile farle dire il nome. Non che voglia l'anonimato, è che non ce la fa a dire altro, solo: «Non c'è più niente». È scesa di casa senza giacca, con le chiavi in mano. Abita sull'ile Saint Louis. La sagoma pietrosa della cattedrale, che cambia colore col cambiare del tempo, e quella guglia nera che si conficca nel cielo, inconfondibile, deve averle scolpite nello sguardo come la faccia di una persona cara.
Questo sembra la folla che circonda da vicino e da lontano la sua cattedrale: i parenti e gli amici riuniti al funerale di una persona cara. Impressiona il silenzio. Parlano sotto voce.
Il ponte Louis Philippe, che si affaccia sui giardini di Notre Dame, è gremito. Comincia a piovere una cenere verdastra. I vigili faticano a convincere le persone ad allontanarsi. E poi anche loro lavorano con la testa girata, fissi su quelle fiamme che ogni tanto sembrano mangiarsela tutta la cattedrale. Qualcuno tira fuori una candela. Improvvisamente se ne accendono tante, una dopo l'altra. Quasi si fossero messi d'accordo che ci voleva una veglia. Intonano un coro. Il parigino scettico accenna una risatina, ma resta isolato, alza le spalle e senza che nessuno gli chieda niente si giustifica: «Devo capire che sta succedendo».
Maria invece arriva a passo di carica. È portiera di uno stabile del quarto arrondissement da quasi 40 anni. Arriva con gli occhi lucidi, ma invece di piangere urla: «Ma come hanno potuto farci questo?» Per lei è la fine, non ci crede che si salverà qualcosa, la cattedrale è distrutta, rasa al suolo, finita. Interamente e per sempre. E la colpa deve essere di qualcuno. «Era la mia chiesa, i miei figli ci hanno fatto il ritiro della prima comunione. Povero padre Aupetit». Padre Aupetit è l'arcivescovo di Parigi. «All'ultima cerimonia di ordinazione dei sacerdoti ha voluto che ci fossimo noi, i portieri del quartiere, in prima fila» dice singhiozzando.
IL SIMBOLO
È questo Notre Dame: simbolo di Parigi, tesoro d'Europa, monumento mondiale, chiesa di quartiere. Talmente legata alla città nonostante i milioni di turisti. «Non so se tutti riescono a capirlo, ma fa stare male vedere quello che sta succedendo, mi spezza il cuore» dice Elsa.
Francesca Pierantozzi
© RIPRODUZIONE RISERVATA
© RIPRODUZIONE RISERVATA

PIEMME

CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ

www.piemmemedia.it
Per la pubblicità su questo sito, contattaci