L'INTERVISTA
MESTRE Dopo aver solcato per anni i mari e gli oceani di tutto il

Lunedì 25 Gennaio 2021
L'INTERVISTA
MESTRE Dopo aver solcato per anni i mari e gli oceani di tutto il mondo, lavorando come infermiere a bordo delle navi da crociera, Federico Spresian, detto Chope, trentacinquenne originario di Martellago, dal 2017 è impegnato nelle corsie ospedaliere di quel Regno Unito divenuto il Paese con la percentuale più alta di vittime della pandemia.
Spresian, dove si trova di preciso?
«Vivo a Norwich, capoluogo della contea di Norfolk, circa 150 km a nord-est di Londra che, troppo cara, lascio nel 2019 con la mia compagna Annalise in dolce attesa di Alessia».
Come giudicano oltremanica la risposta italiana all'emergenza? «Se ne parlava solo all'inizio, etichettandola come inadeguata. Poi il Covid è arrivato anche qui, e non c'è stato più tempo di pensare agli altri, hanno dovuto concentrarsi sui problemi interni, come il mancato rispetto delle regole che ci ha restituito la condizione peggiore di tutti».
Ripercorriamo lo sviluppo della pandemia di fronte ai suoi occhi...
«Inizialmente nessuno ci credeva, lo ricorderete. Poi arriva. E scatena il panico, con i supermercati presi d'assalto. Gli ospedali non erano pronti, ma si sono adattati velocemente, aumentando capacità di risposta, posti letto e personale, che abbiamo formato, per lo meno sulle cose basiche. Il mio ospedale è quello di riferimento a livello regionale, una sorta di vostro Covid hospital, ma in febbraio e marzo avevamo massimo 10 pazienti in Terapia intensiva. Abbiamo retto bene la prima ondata, soprattutto perché la popolazione, spaventata, seguiva le indicazioni».
E giunge l'estate...
«Già. Purtroppo. Come in Italia è stato un liberi tutti, con feste, balli e campagne social dal tenore sono vecchi, muoiono solo loro. La gente non aveva più paura, non ha più rispettato le norme e via con la seconda ondata. La colpa è anche del governo, che ha posto l'economia come priorità sulla salute».
Oggi quali criticità affrontate?
«Nonostante l'ordine di restare a casa, la gente gira per strada. Gli errori estivi, soprattutto di comunicazione, hanno fatto danni. E poi c'è poca polizia, e quella poca non ferma nessuno, è molto elastica».
E in ospedale?
«L'ultimo mese e mezzo è stato terribile. Abbiamo turni di 12 ore, io seguo 5 pazienti, che sono tanti. Ci stanno aiutando i militari, perché il personale non basta, e presto da 10 arriveremo a 80 posti intensivi».
Quali sono le differenze rispetto all'Italia in termini di restrizioni?
«A parte l'attuale lockdown inglese il quadro è analogo. Quarantena generale un anno fa, nessuno in giro per strada; poi fasce multicolore, con un numero ristretto di familiari non residenti da poter ospitare. Anche Contact raising e App sono saltati, e ci si infetta in famiglia. Penso che la differenza più evidente riguardi invece quelli che chiamate ristori: qui il governo ha messo sul piatto molti più soldi, e i lavoratori sembrano più soddisfatti».
La situazione vaccinale?
«Medici e infermieri sono coperti. Io sono vaccinato. Ma ci vorranno sei, forse otto mesi per ottenere risultati, perché i numeri dei contagi sono enormi, e i soggetti meno a rischio vedranno il vaccino chissà quando».
Ha paura per sé e per la sua famiglia?
«Ne avevo durante la prima ondata. Poi meno, perché notavo che il personale sanitario non si ammalava, avevamo capito come usare le protezioni, che sono curiosamente più contenute di quelle in dotazione in Italia. Ora però le cose stanno cambiando, inizio a farmi qualche domanda, perché ci sono tanti colleghi malati, e credo che i pazienti non c'entrino: ci stiamo contagiando tra di noi».
Che dire della variante inglese?
«Penso sia la responsabile dell'aumento dei ricoveri. Non ho mai visto una cosa simile. Ormai assistiamo tantissimi giovani che stanno veramente male».
C'è differenza nel rapportarsi ai giovani rispetto agli anziani?
«Gli anziani hanno vissuto la propria vita, e spesso si approcciano all'intubazione in modo più fatalista. Ma i giovani, anche trentenni, con figli piccoli, sono terrorizzati. Capita che la fame d'aria impedisca loro di dormire, sono stanchi, ma lucidi al cento per cento quando dobbiamo comunicare la necessità di intubarli. Così ti guardano, e ti dicono mi risveglio?, vado a morire?, non voglio morire... Per chi sopravvive la ripresa è lenta, tanti sono in delirio, quasi zombie, il cervello non connette, con i polmoni distrutti non più dal virus ma dall'intubazione, che ci costringe a tenerli sedati e paralizzati».
Quali sono le prospettive future?
«Dipende dalle persone, da noi tutti. Se la gente ricomincia a rispettare le regole i casi caleranno, e potremo riprendere a seguire adeguatamente i ricoverati, anche se, comunque, ci vorrà tempo perché la pressione sugli ospedali diminuisca e si ritorni alla normalità».
Luca Bagnoli
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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