L'Italia bloccata

Domenica 13 Gennaio 2019
LA GIORNATA
TORINO Prima di pranzo, quando piazza Castello ormai si è svuotata, la madamin Patrizia Ghiazza, in rigoroso completo arancione, si gode l'effetto del tunnel scavato all'interno del governo: «Salvini sta con noi e questo flash-mob vale già come un referendum: la Tav non si potrà bloccare». Non c'è euforia, ma consapevolezza. Il colpo d'occhio alla fine è mancato, anche se questo bis non è stato potente come il debutto dello scorso novembre. «Siamo trentamila», ma la piazza ha avuto qualche buco qua e là. Le sette organizzatrici, ancora con i megafoni in mano, passano in rassegna i numeri: «Contano i 93 sindaci che hanno aderito all'evento: ma sapete quanti milioni di persone rappresentano?».
Con cartelli a mo' di fermate ferroviarie, ci sono gli amministratori del Nord e non solo: da Vicenza a Padova, da Genova a Milano, fino ad Ascoli Piceno. Trasversali, ma fanno titolo quelli leghisti. C'è anche, e soprattutto, un popolo con i capelli grigi e senza rabbia. La Torino produttiva e quella delle associazioni di categoria. I genitori e i nonni che sono qui con la spilletta adesiva arancione «perché pensiamo ai nostri figli», dice Mino Giachino, ex sottosegretario ai Trasporti, uno degli animatori del comitato, pronto appunto a presentare il pargolo a tutti i politici che incontra: «Me lo ha chiesto lui di fare questa roba».
LE POSIZIONI
Perché, come spiega Fabio Ravelli di Confindustria Piemonte, «ripudiamo la decrescita felice». Manca, come è ovvio che sia, la sindaca M5S Chiara Appendino, sempre più circondata. Le bandiere di partito sono bandite, sventolano quelle dell'Europa e delle Olimpiadi invernali del 2006. Intorno a mezzogiorno: il clou della mattinata. Inquadratura: Alpi imbiancate sullo sfondo, cielo carta da zucchero, dal megafono rimbombano i nomi dei comuni favorevoli all'opera (con tecniche da stadio: Al-baaa!! Ve-ro-naaaa!). Alla fine dell'elenco: Torino. E scatta il coro: «Sì Tav subito». Chiude l'inno di Mameli.
E si affaccia la politica. Oltre a Maurizio Martina a nome del Pd, ci sono Fratelli d'Italia e i big di Forza Italia (Anna Maria Bernini e Maria Stella Gelmini: «Il referendum è un palliativo per nascondere le difficoltà del governo»), ma anche il governatore della Liguria. E così appena Giovanni Toti incontra Riccardo Molinari, capogruppo della Lega alla Camera, scatta l'abbraccio e la battuta (in attesa di verifica): «Hai finito di far cadere il governo?». Il braccio destro di Salvini a Montecitorio ride e dice tutto il contrario, che si troverà un accordo prima di un eventuale voto del parlamento sui trattati internazionali, che non ci sono problemi e che comunque il referendum è un'ottima arma: «Noi siamo per la democrazia diretta, no?», fa con lo sguardo sornione accendendosi il sigaro.
La funzione strategica della Lega, qui, è intuibile dalla quantità industriale di interviste a cui si sottopone Molinari: «Troveremo il compromesso, aspettiamo l'analisi costi benefici». Il governatore dem Sergio Chiamparino, già in campagna elettorale, confessa: «Prima di marzo indirò il referendum se ce ne sarà bisogno». Anche Alberto Cirio di Forza Italia, suo possibile sfidante alle regionali, annuisce.
LA MAGGIORANZA
E se Torino ritorna per mezza mattinata la Capitale del Regno del fare, tutto intorno si agitano le anime del governo gialloverde. Ecco il vicepremier Luigi Di Maio: «Non mi scandalizzo della Lega in piazza, non c'è una crepa, abbiamo sottoscritto un contratto». Danilo Toninelli, titolare del dossier: «Noi, come governo, dobbiamo stare attenti ai numeri perché quell'opera dovrebbero pagarla in 60 milioni». Si schierano, sulla linea del giammai, anche Beppe Grillo e Alessandro Di Battista. Poi da Milano, l'altro piatto della bilancia. «Io dice Matteo Salvini - penso che l'Italia abbia bisogno di andare avanti, di viaggiare di più e più velocemente».
Simone Canettieri
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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