A dieci anni dal sequestro e dall'omicidio di Iole Tassitani, uno dei più efferati

Sabato 13 Gennaio 2018
A dieci anni dal sequestro e dall'omicidio di Iole Tassitani, uno dei più efferati delitti che il Nordest ricordi, Michele Fusaro rompe il silenzio. Una decisione maturata attraverso una lunga lettera, inviata ad un ex compagno di carcere al San Pio X di Vicenza affinché la consegnasse al Gazzettino, con cui il rapitore e l'assassino della figlia del notaio di Castelfranco Veneto intende innanzitutto replicare alle indiscrezioni sulla presunta concessione di permessi premio già nei prossimi mesi, dunque in netto anticipo rispetto alla scadenza della condanna, fissata dalla sentenza della Corte di Cassazione nel 2037. «Neanche da morto esco da qui», afferma l'ex falegname di Bassano del Grappa, ora detenuto al Due Palazzi di Padova, nelle due pagine scritte a penna, in maiuscolo, in azzurro, di cui riportiamo ampi stralci.
I PERMESSI
Benché sia stata recapitata solo in questi giorni, la missiva risulta scritta lo scorso 21 dicembre. La data è significativa: siamo nei giorni del decennale della tragedia (Iole sparì il 12 dicembre 2007 e il suo corpo fatto a pezzi fu ritrovato il 23 dicembre) e la famiglia Tassitani esprime tutta la propria indignazione per l'eventualità che il killer possa già beneficiare dei meccanismi premiali. «Venerdì 15 spiega Fusaro mi ha chiamato la volontaria per chiedermi se il magistrato di Sorveglianza mi ha sbloccato il permesso. Basito gli ho espresso che neanche da morto esco da qui. E mi ha riferito un'aspra e amara notizia, cioè che sono uscito nel giornale perché vado in permesso. Cose d'altro mondo. Al di là che forse i permessi potrei usufruirli dopo 20 anni di pena, e non so se ce la farò; è terribile che questa ipocrita notizia laceri profondamente ancor di più il cuore degli anziani genitori e famigliari della vittima...».
L'ORGOGLIO
Il 51enne non cita mai Iole per nome, mentre scrive all'amico, rievocando il brutale assassinio: «Quante graffianti lacrime, caro Diego, per quelli che sono senza figlia e sorella, per quei bambini senza la loro zia: tutta colpa del mio orgoglio che mi faceva pensare che anche da solo sarei riuscito a farcela. Non so quando riuscirò ad accettarmi per quel male che ho fatto a tutti, ma come sai sono facile da circuire (credo che la gente mi voglia bene, ma invece mi usa)...». Forse un'allusione a quei complici, se non addirittura istigatori, della cui esistenza i familiari della 42enne sono sempre stati convinti?
LA QUOTIDIANITÀ
Di più sul punto Fusaro non dice. Parla però molto di sé e del proprio percorso: «La scorsa estate lo psichiatra mi ha fatto scoprire un mio problema dopo tutti questi anni di rimuginamenti nel dolore, cioè il non sapere cosa vuol dire amare (e quindi non distinguere chi mi ama veramente e non capire chi mi usa per i suoi fini); di non sapere riconoscere la direzione dell'ordine datomi, se farò del bene o del male: lo eseguo ed è per quello che sono sempre stato un bravo operaio. Quanta vita ho buttato al vento, usato come una macchina o giocattolo, per gli altri. Entrando in carcere con questo altruismo affabile (di cui se ne approfittavano), con il tempo sono stato costretto a divenire più cattivo (a dire di no...), anche se ancora oggi mi rimane difficile dire di no a chi mi chiede aiuto». Al riguardo il detenuto racconta alcuni episodi della sua quotidianità carceraria. Per esempio: «Oggi sullo stendino della biancheria ammucchiati c'erano stesi dei vestiti ancora pieni di polvere bianca del detersivo. Non ho potuto non prenderli, lavargli il collo con il sapone e spazzola e risciacquarli bene del detersivo che avevano addosso. Nessuno qui aiuta gli altri se non ha un interesse nel suo fine, chissà di chi erano quei vestiti che ho lavato». Oppure: «Ora sono in reparto ex infermeria e aiuto una persona che ha una forte sciatica e non può assumere antidolorifici. Sto pregando don Marco affinché gli possa trovare un posticino anche alla Caritas, soffro a vederlo soffrire. Gli lavo i vestiti, le stoviglie... gli chiedo per piacere di andarsi a lavare e come posso lo sostengo...».
LO STUDIO
Dietro le sbarre Fusaro si è diplomato ragioniere e vorrebbe ottenere la laurea da consulente del lavoro. «Mi torturo con lo studio confida poiché è l'unica cosa che può diminuire le problematiche di dislessia, grazie al massacrante impegno come avrai notato sono molto migliorato nella disposizione dei pensieri, ma ci sono voluti 5 giorni e 5 volte per riscrivere questa lettera. Nello studio universitario per me è come remare contro corrente, ma è l'unica terapia che può essermi di aiuto, mi permette di ragionare (io penso di aiutarmi anche sul reato dove non ricordo se pensavo): quella parentesi di periodo non fa parte del mio innato altruismo di poter fare del bene senza pensare che invece era male...».
IL SUICIDIO
Il bene e il male sono un pensiero fisso per il 51enne. «Io rivendica ho sempre insegnato a mio figlio di non nuocere neanche alle formichine». Eppure quel padre premuroso è diventato uno spietato omicida. Fusaro svela di aver tentato di farla finita, dopo averne preso consapevolezza: «Dio mio com'è possibile che sono una vergogna per tutti e devo vivere perché devo soffrire... 2 volte mi hanno salvato dal suicidio (anche perché non ero responsabile del bene e del male), ora so che è egoismo uccidersi...». Il bassanese spiega di aver provato invano anche a mandare delle lettere ai Tassitani: «Nel carcere di Vicenza l'avvocato mi ha proibito di scrivere ai genitori della vittima e a maggio di quest'anno pure il magistrato di Sorveglianza mi ha diffidato di scrivere agli ormai anziani genitori della vittima. E oltretutto mi è vietato di scrivere al loro cappellano, don Adriano di Castelfranco Veneto, per almeno ringraziarlo del sostegno che ha speso di cuore ai famigliari della vittima in questi anni». La riflessione con l'amico è amara: «Come vedi mi scacciano da tutte le parti e oltre a te ho solo una delle mie sorelle che si ricorda di venire qui o scrivermi; d'altronde mi merito di morire e mi dispiace che quelle volte che potevo il carcere me l'ha impedito...».
LA COSCIENZA
Le ultime righe sembrano annaspare fra i sensi di colpa: «La quotidianità è perturbante verso i genitori della vittima... Amico mio posso solo, se la riscrivo un'altra volta questa lettera, forse essere più chiaro e semplice e nascondere di più la sofferenza che porto. Ma non mi accetto, non sono capace di vivere con questo bagaglio nella coscienza, devo anche accettare il sorriso della foto nel giornale... Scusa se ti scrivo in queste sante festività, ma mi manchi. Ma questo mi manchi non son degno di dirlo in questo difficile periodo dell'anno». Quand'è dicembre e a mancare, da dieci anni, è Iole.
Angela Pederiva
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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