Pordenone in Serie B La partita di una città

Sabato 20 Aprile 2019
IL GIORNO PIÙ LUNGO
PORDENONE Non ci sono riuscite le battaglie combattute per non far chiudere le aziende simbolo del territorio, perché anche quella volta c'era chi remava contro. Non si è stati capaci di unirsi quando la provincia è stata politicamente assediata, geograficamente annichilita e moralmente calpestata come la cenerentola della regione. Pordenone, dicono le malelingue e i sofisticati, non è nemmeno una città, ma un paesotto. Oggi invece il gioco più popolare del mondo, quello con undici ragazzi in mutande che corrono dietro a una palla, può fare il miracolo: far diventare Pordenone città, metterla sulla mappa, sbattere il dito sulle labbra facendo tacere i grilli parlanti e unire un territorio che pare un puzzle scomposto. Merito di due figure, una giuridica, l'altra fisica: il Pordenone Calcio e Mauro Lovisa, suo patron e papà, nel senso più affettuoso della parola.
L'ORA DELLA STORIA
Storia del calcio, ma anche storia della gente, del territorio. Come nel 1968, quando sulla storica 500 comparve la prima targa con la scritta Pn, anche alcuni anni fa allo stadio si era all'anno zero. Mauro Lovisa, oggi popolare e chiacchierato, faceva fatica a portare 400 persone sugli spalti. La città, scottata dal fallimento dell'era Setten, si chiudeva nel palazzetto a guardare il basket, lo sport pordenonese per eccellenza. Il calcio lo si andava a vedere nei paesi, al freddo delle tribune in cemento con la nebbia che non ti fa vedere i pali delle porte. Erano in pochi, allora, a credere di poter fare calcio nel capoluogo. Venivano definiti matti. «Ma dove andate, fallirete», battevano sul tamburo le stesse malelingue che affossano ogni tentativo di far crescere una provincia dimenticata. Invece la sfrontatezza di Lovisa, che è uomo dei Magredi e come le viti riesce a crescere anche tra i sassi, ha fatto diventare quelle 400 persone 700. Poi mille, poi duemila, poi quattromila a San Siro, nella notte che ha messo la squadra, prima ancora che la città, sulla cartina geografica d'Italia.
LA SFIDA
Oggi alle 14.30, a Gubbio il Pordenone si gioca la Serie B, un traguardo mai raggiunto dalla città e dalla squadra. Lungo i corsi c'è ancora qualche gufo, che si augura una sconfitta o (peggio) un fallimento postumo in stile Portogruaro. Chissà perché. In realtà quella di oggi non è una partita. Perlomeno non solo. È una sfida che va contro il pensare comune, il no se pol tipicamente pordenonese. Oggi, invece, se pol. Anzi, si deve. E chissà che il calcio non riesca dove gli altri - le categorie e la politica - hanno quasi sempre fallito, cioè nell'impresa di unire sotto un unico tetto il territorio e la gente. Il pallone ancora una volta va oltre se stesso, supera il prato e si trasforma in mezzo sociale. Un elemento che diventa collante facendo leva sul sentimento popolare che non si può e non si deve tradire.
IL RISCHIO
Una squadra in Serie B vale potenzialmente milioni di euro a beneficio della città e del territorio. Una squadra in Serie B ma scippata da qualche altra realtà - sia essa pubblica o privata - non vale nulla. Peggio, vale una figuraccia a livello nazionale. E il rischio c'è, perché le voci di un'emigrazione a Treviso si fanno insistenti. A Udine si può andare a giocare, sarebbe una soluzione-ponte. A Treviso non si dovrebbe andare a vendere, perché si venderebbe non solo un titolo sportivo, ma un'identità. Ecco perché, da domani pomeriggio, è meglio che la città non dorma più. Perché chi dorme, non piglia pesci. Anche in Serie B, dove lo stagno è più grande e i pesci più veloci.
Marco Agrusti
© RIPRODUZIONE RISERVATA
© RIPRODUZIONE RISERVATA

PIEMME

CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ

www.piemmemedia.it
Per la pubblicità su questo sito, contattaci