LA STORIA
PORDENONE Il 1. gennaio del 2020, Gianfranco Bomben ha incassato il

Sabato 4 Aprile 2020
LA STORIA
PORDENONE Il 1. gennaio del 2020, Gianfranco Bomben ha incassato il primo assegno della pensione. Trentatré anni di lavoro nel magazzino della Galbani, a Pordenone, poi il saluto ai colleghi e un mare di progetti: viaggi, tempo libero, il classico buen retiro. Residente a Porcia e nato nel 1953, Bomben mai si sarebbe immaginato che nel frattempo, dall'altra parte del mondo, stesse affinando le sue tecniche un maledetto virus che avrebbe non solo bloccato il pianeta, ma che avrebbe rincorso e poi trovato anche lui, uomo sano e controllato come tanti suoi coetanei. Invece tutto è successo in pochi giorni. Il contagio, ancora non spiegabile, il ricovero in ospedale, il respiro aiutato dalle macchine. Ma adesso è finita, Gianfranco Bomben è tornato a casa. Attende il tampone negativo, ma può urlare che ce l'ha fatta.
Bomben, com'è iniziato il suo incubo?
«Il 10 marzo ho iniziato ad avere un po' di febbre, ma anche i primi professionisti a cui mi sono rivolto pensavano a un'influenza, o comunque a un'alterazione. I giorni passavano, la febbre no. Quando si è deciso che avrei dovuto fare il tampone, l'esito è stato immediatamente positivo. La notizia della malattia mi è arrivata il 16 marzo. Tre giorni dopo, con la febbre alta, sono finito in ospedale. Sono arrivati a casa a prendermi».
Allora il reparto Covid-19 di Pordenone era appena nato.
«Un settore dell'ospedale che si è rivelato un modello. Sono stato seguito, ho notato la passione dei medici e degli infermieri. Posso solo ringraziare di essere capitato in mani ottime. Il reparto è un gioiello: gestito alla grande e allestito in poco tempo».
Qual è stato il momento più duro?
«Mi hanno attaccato a un respiratore, lo potevo togliere solo per andare in bagno. Ero confinato nella mia stanza, con il divieto assoluto di uscire e con il timore che da un momento all'altro potesse insorgere una grave crisi respiratoria e che potessi essere trasferito in Terapia intensiva. Mi veniva misurata continuamente la saturazione dell'ossigeno, che saliva e scendeva. Ho cambiato due compagni di stanza, entrambi più anziani di me. Erano anche loro positivi, abbiamo sofferto assieme. Sono contento che anche loro abbiano lasciato l'ospedale dopo le cure».
Ha avuto paura?
«Soprattutto di non sapere cosa sarebbe potuto succedere d un momento all'altro, ma anche di non rivedere più mia moglie. La chiamato tre, quattro, cinque volte al giorno. La aggiornavo, ci davamo sostegno a vicenda, non abbiamo mai smesso di essere vicini nonostante fossimo in realtà divisi, lontani».
Poi l'ossigeno è stato tolto e la situazione è migliorata. «Mercoledì sono uscito dall'ospedale, ma nel frattempo anche mia moglie era risultata positiva al Coronavirus. Viviamo in casa solo io e lei, quindi non ci sono problemi perché siamo positivi entrambi. Io ora aspetto il tampone negativo. Quando sono rientrato non l'ho abbracciata, ci vuole ancora prudenza. Tanto tra noi basta uno sguardo per dirci che ci vogliamo bene».
Cosa insegna la sua guarigione clinica agli altri malati di Coronavirus?
«Che da questa brutta bestia si può venire fuori, la si può sconfiggere. Io fortunatamente ero sano e non avevo altri problemi, ma il nemico si può battere. Attenzione, però: bisogna seguire alla lettera tutte le indicazioni dei medici. Io non so dove ho preso il virus, può essere stato ovunque. Non si deve allentare la presa. Il nemico è ancora tra noi».
Come sta ora?
«La febbre finalmente se n'è andata, mi ha abbandonato. Sono provato e debole, ma credo che piano piano le cose andranno meglio. Resta e forse resterà per sempre un mistero il mio contagio: avevo preso tutte le precauzioni. Può essere che l'abbia preso da mia moglie, oppure è possibile che sia stato io a contagiare lei. Non si saprà mai. Per questo è necessario prestare la massima attenzione a tutto quello che si fa in questo momento. Io ne sono uscito, altri non sono stati così fortunati».
Marco Agrusti
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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