Il medico che fa nascere i bimbi «I successi ci danno la carica»

Domenica 15 Marzo 2015
A lui si rivolgono ogni anno diverse centinaia di coppie (sposate o conviventi) che non riescono ad avere un figlio. Non sempre esiste una soluzione, a volte rimane un sogno irrealizzato, ma con la sua équipe è riuscito a donare il sorriso a molte famiglie. Francesco Tomei è il direttore della struttura di «Fisiopatologia della riproduzione umana», centro di eccellenza del Friuli Occidentale, che richiama persone dall'intero Nordest. Il suo più che un lavoro è una missione: far arrivare un bimbo a una coppia che lo desidera con tutto il cuore. L'avventura della fecondazione assistita (nei suoi vari livelli) non è mai facile o scontata: è costellata di tentativi, dubbi, delusioni, paure, esami, cure, spese, attesa, rabbia, sorprese e gioia. Tra qualche mese alle tecniche tradizionali si aggiungerà la fecondazione eterologa (donazione di ovulo o seme), una chance in più per donne e uomini che, per motivi di età o per varie situazioni cliniche, hanno percentuali di successo piuttosto basse. Insomma, un percorso complicato, faticoso e che non sempre arriva a buon fine. Ma Francesco Tomei non si è mai tirato indietro. Lo dimostra anche il fatto che è stato inserito nel Comitato nazionale.
Qual è lo stato dell'arte della fecondazione assistita nel nostro Paese?
«Siamo arrivati a un buon punto e in tempi straordinariamente rapidi. La legge 40, rivisitata in forza delle sentenze della Corte costituzionale, ci ha consegnato un testo giusto, equilibrato, degno di un Paese civile. Ora siamo concorrenziali rispetto all'estero ma, soprattutto, siamo in grado di fornire risposte alle domande di tante persone che fino a poco tempo fa erano costrette a spingersi oltreconfine».
Alla luce del ruolo da lei ricoperto nella commissione che a livello governativo ha messo in cantiere la legge sull'eterologa, quali resistenze ha rilevato?
«Gli eventi si sono sviluppati in tempi rapidissimi e sorprendenti. Era l'estate scorsa, ero in vacanza: sono stato chiamato in fretta e furia a Roma per predisporre, assieme ai miei colleghi, le direttive che sarebbero state dopo approvate dalle regioni, passaggio fondamentale per passare dalle parole ai fatti. In 10 giorni siamo riusciti a fare tutto. Finalmente c'era una precisa volontà politica che era stata latitante fino allora. La nostra regione è stata altrettanto solerte nel rendere il testo concretamente applicabile, decidendo di farsi carico delle spese sanitarie. Tutto ciò fino a un anno fa era impensabile».
Qual è il confine tra la professione e la missione? «Non esiste. Noi gioiamo dei successi dei nostri pazienti: ci danno la carica per andare avanti. Non è facile. Non sempre i numeri sono confortanti. Il mio gruppo è composto da 14 persone (dipendenti e collaboratori) tra medici, biologi, infermieri, tecnici e personale di segreteria. Siamo una grande famiglia. Operiamo con entusiasmo e nonostante il super - lavoro (un esempio di «pregresso»: 300 ore di straordinario annue e 85 giorni di ferie ancora da fruire), spinta e motivazione non sono mai venute meno. Garantiamo 6.500 prestazioni ambulatoriali annue che rappresentano il 40% delle attività complessive della ginecologia».
Come ci si sente ad avere il «potere» di creare una vita?
«Io aiuto le persone a superare gli ostacoli. A creare la vita ci pensa qualcun altro. Lo dico da laico. Non credo che un essere umano ne possa creare un altro. C'è qualcuno sopra di noi che lavora meglio».
Cos'è per lei la famiglia oggi?
«Non necessariamente una coppia tradizionale con un bambino. La vita non sempre va come si vuole: si può per vari motivi perdere un coniuge e i figli crescono bene comunque, se c'è l'amore. Ne sono convinto anche per esperienza personale: ho divorziato, i ragazzi sono rimasti con me e sono due persone serene, in regola con gli studi, che sanno amare. La famiglia è convivenza, rispetto, amore, condivisione. Non sempre il matrimonio è garanzia di tutto ciò».
Quale consiglio alle coppie che desiderano un figlio, ma aspettano il momento giusto?
«Non mi permetto di giudicare chi ci arriva in età «avanzata». Consiglio le giovani donne di valutare l'opportunità di congelare gli ovociti in vista di una futura maternità».
Qual è il successo di cui è più orgoglioso?
«Essere la prima regione ad aver equiparato le donne con patologie oncologiche con buona prognosi di guarigione a quelle con problemi di infertilità. È l'unico modo per accedere ai percorsi di fecondazione assistita, indispensabili per prelevare, quando si è ancora in tempo, gli ovociti che verrebbero distrutti dalle terapie oncologiche. Poter preservare la fertilità dà loro una forza maggiore nell'affrontare le cure. Purtroppo, l'età di queste pazienti è sempre più bassa: 20-31 anni».
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