Fawad, fuggito dall'Afghanistan accolto da una famiglia azzanese

Giovedì 19 Agosto 2021
AZZANO DECIMO
Insegnante di storia e letteratura in Afghanistan, mediatore linguistico in Italia, scrittore e poeta in entrambi i Paesi: questo è Fawad e Raufi, trentenne che nel 2016 si è stabilito ad Azzano Decimo, dove ha trovato una famiglia che lo ha accolto. Nato e cresciuto nella capitale afgana, ha pubblicato due libri per ZeL edizioni: Dall'Hindu Kush alle Alpi e Ultimi respiri a Kabul. Il suo primo libro parla del lungo viaggio per arrivare in Europa. Cosa l'ha spinto a mettersi in viaggio? «Rimanere in Afghanistan significa vivere senza speranza, senza un sogno, senza sicurezza, senza sapere fatto se il giorno dopo sarai vivo oppure no. Durante il viaggio, ogni volta che mi trovavo in difficoltà, ripensavo a ciò da cui stavo scappando. Affrontavo ogni ostacolo con la speranza di arrivare in un luogo senza guerra, dove ci sono libertà e rispetto. In Bulgaria e in Iran sono stato in prigione perché non avevo il passaporto. Il domani era sconosciuto, sì, ma pieno di scoperte».
Come è stato l'impatto con il nostro Paese e la nostra cultura?
«Essendo un insegnante di storia e letteratura conoscevo in parte l'Italia, ma quando sono arrivato, nell'aprile 2016, non immaginavo che avrei trovato un luogo così profondamente diverso dal mio nelle abitudini. Per fortuna la mia conoscenza di altre lingue - il farsi, il pashtu e l'inglese - mi ha permesso di imparare in fretta l'italiano. Sono stata accolto fin dall'inizio dalla comunità in cui sono stato inserito insieme ad altri ragazzi: lì ho avuto la possibilità di studiare la lingua e conoscere il territorio. Ho imparato tutto grazie agli italiani e allo Stato: ci sono delle cose che andrebbero migliorate in termini di accoglienza, ma ringrazierò sempre questo Paese e questo popolo».
Com'era la vita da cui è fuggito?
«Ho fatto la scuola in guerra, mi sono laureato in guerra. Nonostante le forze internazionali fossero stanziate sul territorio, la guerra era onnipresente. Attentati e attacchi all'ordine del giorno. Impiegavo due ore per percorrere il tragitto casa-scuola, e quando uscivo non ero mai certo che avrei avuto la fortuna di tornare sano e salvo. Uscivo con la paura, rientravo con la paura, e ogni giorno ascoltavo le notizie terribili che giungevano da tutta la città. Kabul, dal 2001, non ha mai vissuto la pace. In Afghanistan i giovani, quando compiono quindici anni, hanno solo una cosa in testa: fuggire. Lavorano per anni e mettono da parte denaro con quest'idea fissa».
Di cosa parla il nuovo libro?
«Ultimi respiri a Kabul parla della mia vita in Afghanistan. Parlo di letteratura, di cultura: la vita di un afgano in Afghanistan, a prescindere da altri aspetti. Il mio è un popolo dalla spiccata ospitalità: la gente è molto accogliente, sorridente, rispettosa. La letteratura persiana, la storia millenaria, la natura e i suoi paesaggi mi rendono orgoglioso di essere nato lì. Non ci sono solo guerra e cattiveria: porto nel cuore tanti aspetti del mio Paese, come la cucina con i suoi sapori di frutta secca e verdura, o i nostri vestiti tradizionali. Nonostante la guerra, l'Afghanistan ha avuto la forza di mantenere e tramandare molte delle nostre usanze e tradizioni folcloristiche.
Quando nasce la passione per la scrittura? Com'è scrivere in italiano?
«Avevo 16 anni quando ho finito di scrivere il mio primo libro, ma in Afghanistan pubblicare non è facile: ci sono numerosi uffici che vagliano gli scritti e li censurano. Arrivando in Europa e imparando l'italiano ho fatto di nuovo pace con la penna, e ho ricominciato a scrivere. Persiano e italiano sono completamente diversi, tanto nella musicalità quanto nei caratteri e nella grammatica. La vostra è una lingua molto ricca: in persiano non abbiamo elementi come ad esempio gli articoli o il congiuntivo, e dunque ci manca la possibilità di esprimere alcune sfumature del pensiero. In questo senso, l'italiano ha riempito un vuoto che era dentro di me. Ciononostante, la mia lingua madre ha una sua bellezza e infatti ancora la uso. Ma nel comporre il mio ultimo libro ho pensato direttamente tutto in italiano: se fossi partito dal persiano non avrei avuto la forza di tradurre, perché i testi nell'una e nell'altra lingua hanno contenuti e modi di pensare diversi e non interscambiabili. Un sacco di poesie che ho scritto in italiano una volta tradotte non avrebbero la stessa forza e lo stesso significato, e viceversa: ho dei dubbi e dei desideri che in persiano non potrei esprimere. Siamo della stessa famiglia, della stessa umanità, ma le diverse culture influiscono sugli idiomi rendendoli unici».
Enrico Padovan
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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