Covid-19, il reparto nato nel giro di un pomeriggio

Giovedì 9 Aprile 2020
IN PRIMA LINEA
PORDENONE Si chiamano pneumologi-interventisti. Le loro conoscenze sono poco valorizzate e, per capire quanto importanti siano questi specialisti del respiro, c'è voluto il Covid-19. A Pordenone sono in sei. Li guida il primario Umberto Zuccon e in un solo pomeriggio sono stati in grado di allestire una terapia semintensiva respiratoria. È un reparto dall'equilibrio precario: spesso è l'anticamera della terapia intensiva, per i più fortunati spalanca le porte del reparto Covid in Medicina.
Dottor Zuccon, come è cambiato il vostro lavoro?
«In sei ci occupiamo di coronavirus e due si alternano per l'attività normale. Anche altri colleghi vengono dirottati nell'attività ordinaria della Pneumologia, che non si è mai interrotta. Fino a due settimane fa avevamo 25 posti letto non Covid e partecipavamo ai turni nei reparti Covid».
E poi che cosa è successo?
«L'ospedale ha operato una scelta secondo me giusta: trasformare Pneumologia in terapia semintensiva respiratoria. Quindi tutto il personale infermieristico - tre turni, gli Oss e qualche infermiera della sala operatoria - è stato spostato in un'ala delle sale operatorie. Una volta che si sono stabilite le condizioni ambientali adeguate, cioè la messa in sicurezza dell'ambiente con la creazione di un sistema di aspirazione che garantisse molti ricambi d'aria, siamo partiti».
Quali difficoltà avete incontrato?
«Ci sono voluti un paio di giorni per sistemare l'aspirazione, ma quando ci hanno dato il via ci siamo trasferiti nel giro di un pomeriggio. Avevamo già i letti predisposti per la ventilazione non invasiva, ne abbiamo quattro, che per esigenze legate alla scarsità di posti letto e al fatto che è difficile dimettere le persone, specie durante il periodo invernale, diventano 6/8».
Come curate i pazienti?
«Con la ventilazione meccanica non invasiva, le ormai famose maschere Cpap o Niv. Sono sistemi di ventilazione con una caratteristica negativa: ci sono delle perdite d'aria, quindi si crea un aerosol di virus che deve essere aspirato. Quindi anche l'avvicinamento a queste persone deve essere fatto in condizioni di sicurezza. Inoltre somministriamo ossigeno ad alti flussi con un macchinario che spinge nelle vie aree flussi di ossigeno fino a 25/30 litri al minuto, questo determina una grossa ossigenazione del paziente, ma le perdite d'aria sono notevoli».
Avevate tutte le attrezzature?
«Negli Usa le terapie intensive sono gestite da pneumologi, quindi questo evento negativo ha fatto capire non solo all'opinione pubblica, ma spero anche a chi ci governa, l'importanza della pneumologia interventistica semintensiva. Avevamo competenze e ventilatori polmonari, ne abbiamo anche ordinati, ma siccome tutto il mondo li cerca, non ne sono arrivati moltissimi e ci siamo arrangiati con i nostri».
Chi sono i vostri pazienti?
«La terapia intensiva già ci mandava i suoi pazienti per svezzarli dalle macchine, a maggior ragione in questo periodo in cui i letti in rianimazione sono come l'oro. Noi cerchiamo di svezzarli per un rientro lento verso la normalità. Quelli che si aggravano vengono da noi in attesa, quelli che migliorano devono comunque passare da noi. È una zona sensibile, i pazienti sono in equilibrio precario, possono peggiorare facilmente, bisogna controllarli molto bene. Spesso nel giro di dieci minuti crollano e quindi siamo costretti a modificare i parametri di ventilazione e variare la terapia. Purtroppo spesso devono essere intubati di nuovo e tornano in rianimazione».
E quando migliorano?
«Li mandiamo nel reparto Covid del dottor Tonizzo, dove iniziano la riabilitazione motoria e respiratoria, che comincia anche da noi, perchè quando un paziente è intubato per 15/20 giorni è come se facesse un intervento chirurgico che dura tutto quel tempo, la macchina lavora per lui e i muscoli respiratori e del corpo vanno in ipotrofia».
Come fate con gli anziani?
«È difficile svezzare un soggetto di 80 anni, magari con altre patologie, dopo l'intubazione per tre settimane, si rischia di creare una persona totalmente dipendente dalla macchina. Facciamo il massimo, specialmente nei pazienti di una certa età che è difficile intubare. Quando non hai più armi a disposizione, usi i trattamenti che sono stati desunti dai protocolli internazionali usciti negli ultimi due mesi. Non c'è il farmaco per il Covid-19, ma farmaci che cercano di ridurre l'infiammazione e ostacolare il virus. Una volta che li hai usati al massimo, una volta che stai ventilando il malato e vedi che non va, che peggiora...».
Come si sente in questi casi?
«Ho la sensazione, quando sono tutto imbacuccato davanti a queste persone, che ti guardano con speranza e paura, di essere come i medici della Serenissima con la maschera a becco di corvo. Una sensazione disarmante. Ma nei reparti si è creata una solidarietà e una capacità di lavorare insieme che non ha precedenti. È una cosa molto toccante».
Cristina Antonutti
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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