Una notte di cammino per fuggire ai rapitori

Lunedì 16 Marzo 2020
LA TESTIMONIANZA
VIGONZA Era partito in macchina da Vigonza la mattina del 20 novembre 2018. È tornato in Italia in aereo, a bordo di un volo militare, 480 giorni dopo. Un mese da favola e quindici da incubo: è la terribile esperienza vissuta da Luca Tacchetto, rapito in Burkina Faso e trasportato dai suoi sequestratori in Mali, fino alla liberazione di venerdì. Ieri mattina, poche ore dopo esser atterrato a Ciampino, non ha potuto tornare subito a casa per riabbracciare papà Nunzio. Il capo dell'unità di crisi della Farnesina lo ha accompagnato dal pm Sergio Colaiocco e dai carabinieri del Ros, ai quali il trentunenne architetto di Vigonza ha raccontato la sua lunga agonia. Con lui c'era la compagna Edith Blais, 35 anni e un sorriso ritrovato dopo mesi da incubo.
IL RACCONTO
Edith e Luca erano spariti il 16 dicembre dopo aver dormito a casa di un amico francese a Bobo-Dioulasso, la seconda città del Burkina. Ora di quella sparizione emergono nuovi dettagli. Davanti al pm della Procura di Roma, che indaga per sequestro ai fini di terrorismo, il giovane ha ripercorso quei momenti drammatici. «Siamo stati fermati poco lontano del Parco Nazionale W che si trova tra il Burkina Faso, il Benin e il Togo. A bloccarci è stato un gruppo di sei mujaheddin. Abbiamo viaggiato per settimane, anche a bordo di auto, moto e di una piroga. Siamo stati portati, nel gennaio dell'anno scorso nell'area desertica del Mali dove siamo rimasti per tutto il tempo del sequestro. Il sequestro è stato fatto da un gruppo che si è autodefinito jihadista vicino ad Al Qaeda. Per come ci hanno trattati credo fosse un gruppo esperto, abituato a gestire situazioni del genere». Una ricostruzione, quella di Tacchetto, che conferma quanto trapelato negli ultimi mesi: già la scorsa primavera il governo del Burkina Faso aveva fatto sapere che i due ragazzi erano vivi ma non più in quel Paese africano.
LA SEPARAZIONE
La deposizione di Tacchetto, davanti allo stesso pm che si è occupato della morte in Egitto del ricercatore Giulio Regeni e del rapimento in Kenya della cooperante Silvia Romano, ha aggiunto altri importanti dettagli: «Per un periodo io e la mia fidanzata siamo stati divisi, poi quando lei ha cominciato a stare male ci hanno riuniti. Ogni tanto effettuavamo dei trasferimenti ma restando sempre nella stessa area. Siamo stati trattati bene. Non ci hanno mai minacciato con le armi, mangiavamo tutti i giorni anche se poco».
GLI INTERROGATIVI
Una testimonianza alla quale si accompagnano però inevitabilmente molte altre domande senza risposta. Quale organizzazione ha trattenuto per tutto questo tempo i due ragazzi? Se e come sono avvenute le trattative con i servizi segreti italiani? Al puzzle mancano importanti tasselli.
Riguardo la liberazione, l'altro ieri si era diffusa la notizia di un blitz dei caschi blu dell'Onu ma Tacchetto offre un'altra versione: «La sera di giovedì 12 marzo abbiamo notato che il gruppo dei nostri carcerieri si era allontanato per dormire e ne abbiamo approfittato per scappare. Ci siamo fabbricati delle scarpe con gli stracci di alcuni indumenti e abbiamo camminato per tutta la notte. Abbiamo raggiunto una strada e poi abbiamo fermato un camion che passava che ci ha portati ad una base militare». Da qui, quindi, il passaggio sotto la protezione dell'Onu e il contatto con la Farnesina. Il tutto mentre il mondo intero pensava soprattutto al Coronavirus: «I nostri carcerieri ci hanno detto qualche giorno fa che in Italia c'erano dei problemi - le parole di Tacchetto al pm - senza specificare di cosa si trattava». Avrà tempo di capirlo. Ma lo farà a casa, tra le braccia della sua famiglia.
Gabriele Pipia
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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