«Si deve lottare in squadra contro la paura e chi la fomenta»

Mercoledì 22 Novembre 2017
CAMBIO AL VERTICE
PADOVA «Bisogna lavorare in squadra contro la paura e chi la alimenta senza motivo. È questo che causa il senso di insicurezza». Sono le prime parole del nuovo questore Paolo Fassari, 57 anni, che prende il posto di Gianfranco Bernabei, lunedì a capo dell'ispettorato di pubblica sicurezza del Viminale.
È appena arrivato, ma ha già qualche idea su Padova?
«Non mi pare che a Padova si delinqua di più di quanto succeda in città di grandezza simile. So che ci sono problematiche particolarmente sentite, come la sicurezza nei parchi, lo spaccio e la ricettazione. Sottolineo solo un aspetto però. Se c'è spaccio vuol dire che esistono persone che comprano la droga. Se io arresto 50 pusher non elimino il problema, bisogna agire sui clienti. È necessario puntare sulla prevenzione e sull'attività educativa».
La polizia cosa può fare?
«Serve un gioco di squadra, cosa in cui credo molto. L'attività della polizia è l'ultimo gradino che la società civile pone in essere per risolvere un problema. Quando scattano le manette vuol dire che si è fallito».
I dati parlano di reati in calo ma la percezione di sicurezza si abbassa. Perché secondo lei?
«La sicurezza è un tema su cui le amministrazioni vengono attaccate dalle opposizioni. Non voglio essere preso in mezzo, a prescindere da chi comanda, siano rossi o neri. La paura incide sulla percezione di sicurezza più di quanto possa farlo un dato oggettivo».
Dottor Fassari, arriva a Padova in un momento molto particolare per quanto riguarda il tema dei profughi, con le manifestazioni dei migranti ospitati nel Cpt di Cona.
«La strada dell'integrazione è inevitabile: la massa dei profughi non è gestibile con le espulsioni, ma in termini di relazioni e interventi e su questo deve operare la politica. Di certo, generare situazioni di apartheid è sbagliato, perché bisogna prevenire i fenomeni di devianza provocati dall'isolamento. Ci sono fenomeni epocali che vanno al di là delle ideologie, lo spray per far dissolvere i migranti non esiste. Se alcuni profughi sollevano perplessità sulle strutture di accoglienza e chiedono il trasferimento, dobbiamo mettere in conto che anche altri lo faranno».
Lei negli anni Ottanta era assegnato alla Squadra Mobile di Palermo e poi alla Digos, vivendo in prima persona le vicende di mafia legate a Totò Riina. Oggi, a pochi giorni dalla sua morte, si trova a capo della questura di Padova, città dove risiede il figlio del boss.
«La criminalità si ricicla e prevede una stanzialità sul territorio a prescindere dalla parentela, quindi penso che il ricambio avverrà sul posto. Ho fiducia nei cittadini padovani, che sono molto attenti e sensibili di fronte alle situazioni critiche. Il figlio di Riina di certo non è intonso, ma io affronterò la questione senza preconcetti. A parte Riina, ci sono tanti altri soggetti che vengono inviati lontano dalle organizzazioni del Sud con la massima riservatezza, l'allerta è sempre alta. Sono più preoccupato per altro».
Ovvero?
«Ad esempio dei delinquenti che quotidianamente agiscono contro la legge o di chi soffia e fomenta la paura su temi delicati come quelli dei profughi».
Ci racconta la sua esperienza con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino?
«Il passato resta nel passato. Guardiamo al futuro».
Marina Lucchin
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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