L'INTERVISTA
PADOVA Sono passati 365 giorni, oggi, da quando Manuela Turetta,

Domenica 21 Febbraio 2021
L'INTERVISTA PADOVA Sono passati 365 giorni, oggi, da quando Manuela Turetta,
L'INTERVISTA
PADOVA Sono passati 365 giorni, oggi, da quando Manuela Turetta, la figlia di Renato, il paziente 2 di Vo', amico della prima vittima del virus, Adriano Trevisan, ha visto per l'ultima volta suo padre. Lei, il marito e la madre erano stati portati al centro Malattie infettive dell'ospedale di Padova da un'ambulanza per fare il tampone. Nello stesso reparto poco prima era arrivato anche il padre, che era risultato positivo al test per quel Coronavirus di cui da qualche settimana si sentiva parlare nei telegiornali.
Era il 21 febbraio 2020, intorno alle 18, e Manuela ha potuto salutare il papà da un vetro grazie all'aiuto di una infermiera. Stava male, ma era cosciente e non era intubato: Manuela non sapeva che sarebbe stata l'ultima volta che l'avrebbe visto vivo. Diciotto giorni dopo, Renato si è arreso alla forza del virus. E ora la figlia racconta la sua storia, per «non dimenticare». Perché «solo chi ci è passato sa cosa vuol dire, ma per uscirne serve l'impegno di tutti».
Partiamo dall'inizio. Partiamo da quando ha saputo che suo padre aveva il Covid. Sapevate cosa voleva dire?
«Non ci rendevamo conto. È stato come un meteorite che ci è caduto addosso. Io l'avevo sentito nominare, sì. Avevo sentito della Cina. E poi nei giorni prima della Lombardia. Ma in un paese così piccolo come Vo'? Io pensavo sarebbe arrivato prima a Milano o a Roma. Siamo arroccati su sto colle. Eppure. Eppure era qua. Eppure ce l'aveva mio papà».
Suo padre è quello che abbiamo chiamato paziente 2, mentre il paziente 1 era il suo amico, Adriano Trevisan.
«Sì, ma credo che in realtà il virus fosse qui da mesi. A Vo' ci sono state tante polmoniti strane che gli anni precedenti non c'erano. E mia mamma ha avuto una malattia che l'ha costretta a letto per due settimane prima che stesse male mio padre. Dicevamo che era una brutta influenza invece era il Covid, come ha dimostrato poi il tampone che ne ha rilevano la coda finale. Era praticamente guarita quando l'ha fatto».
Suo papà quando è stato male?
«Papà è stato ricoverato il 19 febbraio a Schiavonia. Mamma ha chiamato l'ambulanza perché stava male. Aveva la polmonite e aveva difficoltà a respirare. I primi giorni aveva la febbre che si alzava e si abbassava, ma non sembrava una cosa grave. Ma non riuscivamo a curarlo. E quindi l'ospedale era l'unica soluzione».
E in ospedale c'era anche Adriano Trevisan.
«Sì, è stata quella la cosa strana che ha fatto scattare la scintilla nel medico che ha poi fatto il tampone a entrambi. Mi ricordo che in corridoio ci siamo trovati io, mia mamma e il figlio di Adriano. E parlavamo proprio del fatto che lui e papà si vedevano nello stesso bar. Che fosse per quello che avevano sintomi simili? E così Vladimiro Trevisan è andato a parlarne col primario».
E lì è partito tutto?
«Sì, hanno fatto il tampone il venerdì 21 al pomeriggio. Avevo portato su mia mamma prima di andare al lavoro. Alla sera mi hanno chiamato e mi hanno detto che papà era positivo e che dovevo andare a casa ad aspettare che arrivasse un'ambulanza che ci avrebbe portato a Malattie Infettive a Padova perché dovevano fare il test anche a noi».
È stata quella l'ultima volta che l'ha visto?
«Sì, attraverso un vetro grazie a un'infermiera di cui non ho il nome, ma che vorrei tanto ringraziare. Me l'ha fatto vedere. Era cosciente, non era intubato aveva solo l'ossigeno».
E lei era positiva?
«No, è incredibile, io sono stata tanto con papà, il virus l'ho respirato. Ma sono sempre risultata negativa sia ai tamponi che ai test sierologici. Mamma invece era positiva».
Quando ha saputo che Adriano Trevisan era morto?
«Quella notte, ho sentito sua figlia Vanessa».
E suo padre l'ha saputo?
«No, l'avevo sentito un paio di volte al telefono, non c'era ancora il modo di fare le videochiamate, era tutto ancora all'inizio. Ma non ho mai avuto il coraggio di dirgli della morte del suo amico».
Adriano aveva dei problemi di salute, suo padre come stava prima di prendere il virus?
«Mio padre stava bene, Nessun problema. Me lo chiedono in tanti. Aveva una salute di ferro. E, in ogni caso, anche se avesse avuto quelle che chiamano patologie pregresse, la sua vita sarebbe forse valsa di meno?».
Sono ricordi dolorosi da riaffrontare.
«Sì, ma dopo un po' ci si abitua. E io voglio parlarne perché è giusto che la gente sappia. Un giorno i nostri nipoti leggeranno tutti questo sui libri di storia. Voglio che leggano la verità: è un virus che uccide. Bisogna lottare per debellarlo».
Si riferisce a chi non crede nella malattia?
«Leggo e sento cose inaccettabili e incedibili. Forse la gente è abituata troppo bene. Forse ci si rende conto di quel che vuol dire veramente solo quando il virus ti entra in casa e ti strappa una persona cara».
È arrabbiata?
«Sì, perché basterebbe aver fatto qualche sacrificio in più e non saremmo arrivati alla seconda ondata. Io lavoro come barista, so cosa vuol dire se i locali devono restare chiusi. Ma per la salute qualche sacrificio si può fare».
Si vaccinerà?
«Sì, certo, appena sarà il mio turno. È l'unico modo per tornare alla vita normale».
M.Lucc.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
© RIPRODUZIONE RISERVATA

PIEMME

CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ

www.piemmemedia.it
Per la pubblicità su questo sito, contattaci