L'INTERVISTA
PADOVA La tonaca la porta il meno possibile. Alla veste ufficiale

Venerdì 25 Giugno 2021
L'INTERVISTA PADOVA La tonaca la porta il meno possibile. Alla veste ufficiale
L'INTERVISTA
PADOVA La tonaca la porta il meno possibile. Alla veste ufficiale da sacerdote, don Luca Favarin preferisce maglietta e blue jeans. E la sua chiesa non ha pareti di mattoni: è la strada. È qui, ai margini della società, che il sacerdote porta avanti la sua missione, quella iniziata ancora nel 2004 quando era ancora parroco a Fossò, assieme a don Oreste Benzi, vicino a coloro che vengono definiti gli ultimi: prostitute, carcerati e senzatetto. E ragazzini, minorenni, alcuni di soli 11 o 12 anni, strappati al racket della droga. Motivo per cui la comunità dove vengono ospitati è stata l'obiettivo di un raid vandalico che don Luca definisce intimidatorio.
Perchè intimidatorio?
«Hanno portato via due pc, ma chi viene a rubare e perde tempo a imbrattare tutto con la maionese, la marmellata, i wurstel e tutto quello che trova nei frigo? Chi butta all'aria le camere senza portar via nulla? Il tutto con i guanti, perchè si sono ben visti dal lasciare tracce come i più esperti tra i protagonisti del crimine. Noi diamo fastidio perché strappiamo questi ragazzini a una forza che possiamo chimare delittuosa oppure mafia, ma che, di fatto, è un'entità che reclama i suoi delivery».
In che senso? Cosa sarebbero i delivery?
«Come esistono i fattorini della pizza, esistono i fattorini della droga. Sono i ragazzi che cerco di salvare, ovvero, sono i ragazzi cui cerco di far scoprire una strada diversa. Ma la malavita li ha fatti arrivare qui, li ha istruiti alla criminalità e quando vengono da me - perchè inviati dalle forze dell'ordine o dai servizi sociali - poi cerca di riaverli indietro».
Chi sono questi ragazzini e da dove vengono?
«Sono stranieri, minorenni, sempre più piccoli, anche di 11 anni. Il 70 per cento di loro arriva da un quartiere ben preciso di Tunisi, El Jabaria. Arrivano in Italia perché hanno un aggancio proprio a Padova. E così finiscono dall'Arcella di Tunisi, all'Arcella nostrana».
Cioè vengono inviati da casa dritti nelle mani dei trafficanti di droga?
«Vengono qua perché hanno un aggancio benedetto dalla famiglia, sanno già dove andare a Padova quando arrivano. Poi non è detto che i genitori sappiano cosa vengono a fare. Li mandano perché assicurano loro che qua troveranno lavoro. Vengono da baraccopoli, posti degradati, e una volta qui continuano con questo stile di vita. Ecco perché prima di tutto dobbiamo procedere con un'operazione di riassestamento».
Cosa sarebbe?
«Facciamo un esempio. Un ragazzino arrivato alle 3 una notte al nostro dai, andiamo a letto, ci ha detto che lui un letto non lo vedeva da due anni. Dormono nelle case abbandonate, vivono di notte, mangiano roba trovata in mezzo alle scoasse (rifiuti, ndr) o rubata al super. Non fanno la vita dei loro coetanei. Per cui noi dobbiamo rieducarli a vivere in una casa pulita, in mezzo a una comunità di pari e non a un branco, al cibo vero, ad essere attivi di giorno e non di notte. Ecco perché, per scelta, dentro alla nostra comunità Kidane lavorano 7 giorni su 7, 24 ore al giorno solo professionisti, dallo psicologo al criminologo. Non è facile, non si vince sempre, ma salvarne uno è già un successo».
E riescono a tornare bambini?
«Sì, in alcuni casi sì. Andare al mare, in piscina, vivere in questa comunità - che è anche dura eh, non è che diciamo solo poverini, il nostro non è assistenzialismo - ha fatto scegliere a qualcuno la strada del riscatto dall'attività criminale. E anche quelli che scappano se ne vanno con la nostalgia di aver vissuto per un po' da ragazzetti».
Dopo l'incursione al campus, ha paura per i suoi ragazzi?
«No per loro no, al massimo se li riprendono. È quel che dicevo al prefetto oggi (al Cosp, ndr): il problema non sono i danni alla casetta. Quelli si sistemano. Il problema è che qualcuno con i guanti, da professionista, è venuto a intimidirci».
E lei ha mai temuto per la sua vita?
«No, no. Né io né chi lavora con me. Sappiamo che è un'opzione possibile, che fa parte del gioco. Come sappiamo che c'è una parte di gente che ci chiama buonisti e rema contro, così sappiamo che ci sono anche i criminali che ce l'hanno con noi perché portiamo via loro i ragazzi su cui si basa il loro racket della droga, o le prostitute».
Ha parlato di mafia prima. Che mafia?
«Si dividono la città. Quella albanese si occupa di prostituzione, quella nigeriana anche di un certo tipo di droga, quella tunisina di scippi, del raket dell'accattonaggio, dei furti di bici. Che poi è così che iniziano i babyspacciatori che mi vengono affidati. Prima li mettono alla prova facendogli rubare una bicicletta, poi gli fanno portare a spasso prima l'hashish, poi l'eroina, poi la cocaina».
E i ragazzi che si picchiano dalle parti del Duomo?
«È un'energia che va governata. Vuoi nascondere la cosa? Fai presto: metti 3 poliziotti e questi si spostano. Ma come cittadini ci dobbiamo domandare: vogliamo spostare il problema o gestirlo? Parliamo tanto di rigenerazione urbana, ma bisogna prendere coscienza della resilienza urbana. Non puoi costruire una piazza e non fare nulla per evitare che lì ci vadano a spacciare».
E in questo vi inserite voi?
«Diciamo che noi facciamo come gli artisti che dai rifiuti costruiscono un opera d'arte, che nel nostro caso è la vita dei ragazzini considerati scarti dalla città».
Marina Lucchin
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