«Ho cercato la storia di mio padre, poi ho indossato la sua divisa»

Giovedì 21 Giugno 2018
«Ho cercato la storia di mio padre, poi ho indossato la sua divisa»
IL FIGLIO
PADOVA Riccardo Borraccino oggi ha 29 anni ed è un agente tecnico specializzato nelle indagini balistiche, in servizio alla sezione Scientifica della polizia di Stato a Padova.
Non aveva ancora due anni quando, la notte del 5 aprile 1991, suo padre Giovanni, assistente della polizia di Stato, veniva ucciso assieme al collega Giordano Coffen in una sparatoria contro una banda di rapinatori formata da pregiudicati e guardie giurate corrotte, che aveva preso di mira un ristorante poco lontano dalle Padovanelle.
Riccardo, a 27 anni da quei fatti, indossa la stessa divisa del padre. Un passato che non si può dimenticare.
«No, non si può dimenticare chi ha dato la propria vita per salvare la vita di altre persone. Questo era mio padre e io indosso la divisa della polizia con un doppio carico: quello di essere un poliziotto e quindi al servizio della comunità, e quella di essere il figlio di un poliziotto ucciso mentre faceva il proprio dovere. La mia è stata una scelta dettata dall'orgoglio di avere avuto un padre così. E sono entrato in servizio quando mio papà sarebbe dovuto andare in pensione, il 25 maggio 2017. In ogni cosa che faccio come poliziotto, porto sempre con me mio padre».
Torniamo a quella sera dell'aprile 1991. Quando ha saputo com'erano andati i fatti?
«Avrei compiuto due anni alcuni giorni dopo, l'8 aprile, quindi non posso ricordare nulla di quei momenti. Fin da subito però ho memoria delle parole di mia mamma (Nunziata Tomai, anche lei presente ieri all'intitolazione al marito e al collega Coffen della caserma logistica di via Diaz insieme all'altra figlia Giovanna, ndr) che mi raccontava di mio papà come di un eroe. Poi i ricordi dei colleghi di mio padre, che mi hanno spiegato, mentre diventavo grande, chi era, cosa faceva e com'era morto. Io a un certo punto ho iniziato a cercare la storia di mio papà in internet, trovando tutto. A dieci anni avevo piena cognizione di cosa era successo».
Da quel momento ha capito che per lei fare il poliziotto sarebbe stata più che una semplice scelta lavorativa?
«Sì, ho subito voluto entrare in polizia, per me era il più bel lavoro al mondo. L'unico che potessi fare. Così ho indirizzato tutta la mia formazione in studi che mi permettessero di fare il concorso e non appena è stato possibile partecipare, l'ho fatto. Sono riuscito a vincerlo e ho iniziato il percorso. In polizia sono stato accolto come all'interno di una famiglia, tutti sapevano chi fossi e quale storia ci fosse dietro alle mie spalle. Ora che sono poliziotto ribadisco che è il miglior lavoro che esista, sono orgoglioso di questa scelta, anche perché faccio lo stesso lavoro che faceva mio padre e per me è un significato aggiuntivo».
Cosa le resta del sacrificio di suo padre, ora che è anche un suo collega? E cosa vuol dire per lei l'intitolazione di questa caserma?
«Mi spiace ancora adesso per quello che è successo quella notte, ma al contempo sono pieno d'orgoglio per come mio padre ha portato avanti il suo servizio e ha dimostrato fedeltà alla sua divisa e ai suoi ideali fino alla fine. Purtroppo è finita male, è finita così, e su quello non si può tornare indietro. La lapide scoperta oggi è il simbolo, per ricordare a tutti chi era mio papà, cosa vuol dire essere un poliziotto e farlo fino alla fine, fino al punto più alto, donare la vita per permettere alle altre persone di vivere la propria. E questo rende pieni d'orgoglio me e la mia famiglia: sapere che papà non è morto invano e che lui adesso è un esempio che i colleghi e che Padova ricordano e onorano sempre».
N.M.
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