LA CERIMONIA
dal nostro inviato
SANTA MARIA DI SALA (VENEZIA) Erano ragazzi,

Martedì 19 Febbraio 2019
LA CERIMONIA dal nostro inviato SANTA MARIA DI SALA (VENEZIA) Erano ragazzi,
LA CERIMONIA
dal nostro inviato
SANTA MARIA DI SALA (VENEZIA) Erano ragazzi, ora sono uomini. Adriano, il figlio del macellaio Lino. Maurizio, il fratello del poliziotto Andrea. Manca solo Alberto, il figlio del gioielliere Pierluigi, trattenuto a Roma da un impegno. Sabbadin, Campagna, Torregiani: tre nuclei diventati uno, solidale e dolente, la grande famiglia allargata delle vittime dei Proletari armati per il comunismo, che a quarant'anni dalle pallottole del 1979 si ritrova a Caltana, frazione di Santa Maria di Sala, per la prima volta da quando Cesare Battisti è stato catturato in Bolivia e incarcerato in Italia.
IL SIGNIFICATO
Lo dice subito Vittorio Zappalorto, prefetto di Venezia, con una partecipazione emotiva che va al di là del ruolo istituzionale: «Questa cerimonia ha un significato un po' diverso, più speciale rispetto a quelle degli anni scorsi. Non voglio dire che sia motivo di soddisfazione, ma è una notizia positiva il fatto che quest'anno il responsabile di quel barbaro omicidio è stato assicurato finalmente alla giustizia. E come lo Stato ha presentato il conto a lui, così farà anche con gli altri 15 che stanno dall'altra parte della frontiera. Perché prima o poi arriverà anche per loro la giustizia, questo è poco ma sicuro». Il pensiero corre a Paola Filippi, la padovana tuttora latitante in Francia che secondo la verità giudiziaria quel 16 febbraio guidava l'auto da cui scesero Battisti e l'esecutore materiale Diego Giacomini, per andare a vendicare l'uccisione due mesi prima di un rapinatore che aveva assaltato il negozio dei Sabbadin. «La colpa di Lino rimarca Sergio Vallotto, deputato leghista di zona è stata quella di difendersi a casa sua. Ma dopo anni di bella vita, il criminale Battisti è stato preso grazie al governatore Jair Bolsonaro e al nostro ministro dell'Interno».
LA POLITICA
Seppur invitato, Matteo Salvini non c'è, né altri del Governo. Arriva solo un post di Lorenzo Fontana: «40 anni dopo, giustizia fatta. Un pensiero ai familiari di Lino Sabbadin, Pierluigi Torreggiani (sic) e Andrea Campagna». Sabato scorso, il giorno dell'anniversario della morte di Sabbadin e Torregiani, il figlio di quest'ultimo, Alberto, ha condiviso su Facebook le parole dell'eurodeputata forzista Lara Comi, presente alla cerimonia a Milano: «Io ci sono, ci sono sempre stata e ci sarò sempre, a fianco delle vittime. Purtroppo c'era più gente a farsi fotografare all'arrivo in Italia del terrorista latitante Cesare Battisti, che fu il mandante di quei delitti». Ma la politica regionale vuole esserci. Si fa sentire l'assessore leghista Roberto Marcato: «Uno Stato civile deve decidere da che parte stare, non ci può essere confusione tra i violenti e le vittime. Invece abbiamo permesso che i criminali presentassero i loro libri a caviale e champagne insieme ai cosiddetti intellettuali». Si associa la collega ex azzurra («Qui ricordo la mia origine nel Msi») Elena Donazzan: «Adriano, con la sua riservatezza, ha dimostrato un coraggio straordinario, quando c'era chi celebrava il compagno che sbagliava. Ora voglio distribuire nelle scuole la lettera della famiglia Campagna».
LA LETTERA
Si tratta della missiva con cui Chiara Andrea Ajelli ha spiegato l'origine del suo secondo nome, dopo l'arresto del leader dei Pac: «Andrea era mio zio, quella famiglia è la mia, e l'uomo che l'ha ucciso è il terrorista, e nessuno dica ex, Cesare Battisti. I cattivi non perdono solo nelle favole, e anche se amara, quella di oggi è la vittoria più dolce che potessimo avere». Applausi e lacrime. Viene chiesto ad Adriano Sabbadin di dire due parole ma lui, sopraffatto dalla commozione, non riesce a pronunciarne più di tre: «Grazie a tutti». Maurizio Campagna può parlare anche a suo nome, il dolore e la dignità sono gli stessi: «Siamo stati accusati di volere vendetta, invece no, chiediamo solo giustizia. Battisti si proclama ancora innocente? Le sentenze dicono che è colpevole, ma se davvero non è stato lui, allora dica chi altro sarebbe stato». Dopo la cerimonia in piazza, la celebrazione in chiesa. La giornata liturgica propone la lettura di Caino e Abele, una coincidenza che sorprende lo stesso don Danilo Bovo: «Non la paura e non l'odio raccomanda il parroco ma l'incontro e il perdono, se Dio ce ne dà la forza. Altrimenti il perdono lo affidiamo a lui».
Angela Pederiva
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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