Raccontano che alla vigilia della battaglia che avrebbe concluso la guerra, il generale

Martedì 15 Luglio 2014
Raccontano che alla vigilia della battaglia che avrebbe concluso la guerra, il generale
Raccontano che alla vigilia della battaglia che avrebbe concluso la guerra, il generale Armando Diaz non sapesse neppure dove si trovava Vittorio Veneto. Era stato deciso a tavolino che si sarebbe chiamata la ”Battaglia di Vittorio Veneto”, suonava bene per tanti motivi: un nome che aveva già in sé il concetto della vittoria, l'attaccamento alla terra che aveva sopportato la guerra e l'invasione, la vicinanza al fiume Piave. Un nome che si prestava alla storia e che sarebbe stato facile ricordare e sfruttare. Non a caso quattro anni dopo, appena passata la marcia su Roma, Mussolini si presenterà al re per ricevere l'incarico di capo del governo usando la parola magica: “Porto a Vostra Maestà l'Italia di Vittorio Veneto…”. La cittadina veneta era nata il 27 settembre 1866 dall'unificazione di due comuni distinti, Ceneda e Serravalle, ed era stata battezzata Vittorio il 22 novembre in omaggio al primo re d'Italia. Dopo la guerra la gente iniziò a chiamarla Vittorio Veneto ma l'appellativo “veneto” venne ufficialmente aggiunto nel 1923. Allo scoppio della guerra aveva quasi 22 mila abitanti (oggi ne ha poco meno di 29 mila).
Chi c'era riferisce che Diaz se ne stava con la faccia appiccicata a un'enorme carta geografica del Veneto, la guardava con occhi miopi, s'aiutava con una grosse lente d'ingrandimento, la scorreva ripetutamente e non trovando la località si rivolgeva in napoletano stretto al suo staff: “Ma ‘sto Vittorio Veneto addo' cazzo sta?”. La frase, riportata da Indro Montanelli, è esatta assicura Ferruccio Parri, che faceva parte dello Stato Maggiore di Diaz. Parri guiderà il primo governo dell'Italia libera dopo la seconda guerra mondiale. Dello staff faceva parte anche il giovane professore di lettere Giovanni Gronchi che sarà Presidente della Repubblica nel 1955.
La riunione decisiva si tenne il 13 ottobre 1918 nel quartier generale di Abano Terme, dove era stato requisito l'hotel Trieste che dopo la guerra si chiamerà “Trieste&Vittoria”. Il presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando si era scontrato con Diaz a fine settembre sulla necessità di sferrare al più presto l'ultimo, decisivo attacco: “All'inazione il governo preferisce la sconfitta”. Diaz sa che hanno tentato di destituirlo alla vigilia dell'attacco finale, sa che in quella situazione “basta poco per far dimenticare i servizi resi e i meriti”. Il generale Enrico Caviglia, che comanda l'Ottava Armata lungo il Piave, annoterà dieci anni dopo sul suo diario, in occasione dei funerali di Diaz: “Per tutta la vita aveva svolto funzioni di segretario, e quello era il suo posto… Non intese mai bene perché l'Italia abbia vinto a Vittorio Veneto e al Piave, ed è morto senza saperlo. Ma aveva anche la più grande qualità che un uomo possa desiderare: era fortunato”. Il piano per la terza battaglia del Piave era chiaro: azioni sul fiume e sul Grappa per puntare poi a Vittorio Veneto, bloccando le vie di comunicazione austroungariche; successivamente avanzata a nord di Valdobbiadene e verso Feltre. Vittorio Veneto è sulla strada principale per il nord, è sulla via di fuga del nemico. Occorre attaccare subito perché l'armistizio generale è imminente. Tra le critiche, si costituiscono due nuove armate con divisioni anche inglesi e francesi al comando di due generali stranieri: l'inglese Frederick Cavan e il francese Jean Cèsar Graziani. Ma ci sono buone ragioni diplomatiche per farlo. Diaz stabilisce la data: 24 ottobre, anniversario di Caporetto. La battaglia incomincia sul Grappa e dodici ore dopo viene scatenato l'assalto principale sul Piave.
Gli storici sono concordi nel sostenere che la vera battaglia che ha deciso le sorti della guerra è stata quella del Solstizio a giugno. Giuseppe Prezzolini ha scritto che Vittorio Veneto è stata “la vittoria dei furbi”. Ma sicuramente questa battaglia, sanguinosa come le altre, mette definitivamente in ginocchio l'esercito nemico. Nei dieci giorni dello scontro finale l'esercito italiano perde 37.461 uomini tra morti, dispersi e feriti. Gli austroungarici hanno 30 mila tra morti e feriti, ma lasciano anche 50 mila prigionieri. All'inizio l'esercito nemico oppone una valida resistenza sul Piave e sul Grappa, poi crollano le difese, aumentano le defezioni. Dallo Stelvio al mare l'esercito italiano schiera 8 armate di prima linea e una di riserva, 57 divisioni di fanteria e quattro di cavalleria, 700 battaglioni di fanteria compresi otto di ciclisti e 31 reparti d'assalto.
Fritz Weber, allora tenente presso Eraclea, scrive a fine ottobre: “Ognuno ormai combatte isolatamente la sua lotta contro la fame e la spossatezza. Che cosa mai tiene unita questa gente? Senso di fedeltà, di cameratismo e di paura. Paura di rimanere soli e di scomparire come isolati…”. Il generale tedesco Erich Ludendorff ammette: “Per la prima volta avemmo la sensazione della nostra sconfitta”. Il 28 ottobre il feldmaresciallo Boroevic segnala a Vienna l'eventualità “di dover sgomberare il Veneto sotto la pressione nemica”. Il giorno dopo il fronte ha ceduto, in Alto Adige migliaia di soldati austriaci affamati prendono d'assalto treni e autocarri per scappare in Austria, viaggiano aggrappati a tetti e sportelli, molti muoiono cadendo per il sonno. Gli italiani catturano in pochi giorni 400mila prigionieri, non sanno dove rinchiuderli e li smistano per tutta Italia, anche in parti lontanissime come l'isola dell'Asinara a nord della Sardegna. In un anno di prigionia 30 mila moriranno di colera, di altre malattie infettive e di fame.
La battaglia di Vittorio Veneto finì il 4 novembre, il giorno dell'Armistizio. La guerra davvero a quel punto era conclusa.
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