Iran, l'ultima lettera di Reyhaneh: muoio in difesa di un valore

Lunedì 27 Ottobre 2014
Iran, l'ultima lettera di Reyhaneh: muoio in difesa di un valore
IL TESTAMENTO
Una lettera, struggente, alla madre. Quasi un testamento spirituale. Così Reyhaneh Jabbari, 26 anni, la donna iraniana condannata a morte e impiccata nella mezzanotte di venerdì, si è congedata dalla vita, chiedendo che i suoi organi fossero donati.
La madre di Reyhaneh si chiama Sholeh Pakravan, attrice di teatro, è stata avvertita che sua figlia sarebbe stata uccisa (“giustiziata”, in una storia del genere, sembra un termine fuori luogo) solo poche ore prima dell'esecuzione. Ma la lettera, secondo gli attivisti iraniani che l'hanno diffusa, era stata scritta ad aprile. Alla madre Reyhaneh si rivolge chiamandola per nome: «Cara Sholeh, oggi ho imparato che è arrivato il mio turno di affrontare la Qesas» (è la legge del taglione: la famiglia della vittima avrebbe potuto salvarle la vita, ma ha chiesto la riabilitazione morale dell'ucciso e Reyhaneh ha rifiutato di ritrattare). «Ho raggiunto l'ultima pagina del libro della mia vita - scrive Reyhaneh -. Tu sai quanto mi addolora saperti triste». E poi ricorda cosa è successo in quel pomeriggio che - dopo sette anni di carcere - le è costato la vita.
DECORATRICE D'INTERNI
Reyhaneh, studentessa all'università di Teheran quando aveva 19 anni, si manteneva agli studi lavorando come decoratrice d'interni. Un uomo le chiese un appuntamento ma - secondo Reynaneh - una volta nell'appartamento - uno studio medico vuoto che intendeva arredare - avrebbe tentato di violentarla. Lei aveva un coltello, lo colpì dietro la spalla. Vedendolo ferito, chiamò un'ambulanza. Ma la coltellata - evidentemente - aveva reciso un'arteria: L'uomo morì. E lei fu accusata di omicidio volontario. Si è detto, al processo, che aveva comprato un coltello due giorni prima il delitto, e questo farebbe pensare a una premeditazione. Ma perché un'adolescente avrebbe dovuto uccidere un uomo nell'appartamento di lui? Sarebbero state ignorate delle prove a favore della ragazza. La vittima era un medico che aveva lavorato nei servizi segreti il cui buon nome da difendere, secondo i sostenitori della giovane, sarebbe stato decisivo nella sentenza. «Quella notte angosciante - racconta nella sua lettera Reyhaneh - ero io che sarei dovuta essere uccisa. Il mio corpo sarebbe stato gettato in qualche angolo della città e, dopo qualche giorno, la polizia lo avrebbe portato all'obitorio per identificarlo». E aggiunge: «L'assassino non sarebbe mai stato trovato perché noi non abbiamo il suo denaro, il suo potere».
COLPO MALEDETTO
Scrive Reyhaneh, con quella coltellata, «colpo maledetto» lo definisce, la storia è cambiata. Ma per lei non c'è stata salvezza, il suo corpo anziché in un angolo di una strada - scrive - è stato buttato nella «tomba» di una prigione. E alla madre dice: «Mi hai insegnato che si deve difendere un valore, anche se si muore per questo». E ancora: «Non uccido nemmeno le zanzare, e gli scarafaggi li allontano prendendoli per le antenne. Ora sono diventata un'assassina con premeditazione». Ed ecco, la richiesta, con parole toccanti: «Madre gentile, cara Sholeh, quello a me più caro è che io non vada a marcire sotto la terra. Fai in modo che sia disposto che, non appena impiccata, il mio cuore, reni, occhi e tutto ciò che possa essere trapiantato venga tolto dal mio corpo e dato a qualcuno che ne ha bisogno come un dono. Non voglio che chi riceve questo sappia il mio nome, che compri un mazzo di fiori, che preghi per me».
E ancora, ai genitori, Reyhaneh dice di non volere una tomba dove loro vadano a piangere. «Non voglio che indossiate abiti neri per me. Fate del vostro meglio per dimenticare i miei giorni difficili». E il commiato alla madre: «Avrei voluto abbracciarti, fino alla mia morte. Ti amo». Il testamento di una vittima.
F.M.
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