Via Rasella, i 100 anni di Mario Fiorentini: «Ecco che cosa salvo di Mussolini»

Sabato 3 Novembre 2018 di Lorenzo De Cicco e Elena Panarella
Via Rasella, i 100 anni di Mario Fiorentini: «Ecco che cosa salvo di Mussolini»
In via Rasella, ci racconta, da bambino faceva incetta di libri e lì, un giorno, con cinque lire si portò a casa i teoremi di Euclide, «l’opera che mi ha spalancato una finestra sulla bellezza della matematica, la passione di una vita». Una vita, dice Mario Fiorentini, cento anni il 7 novembre (sarà celebrato alla Casa della Memoria e prima, domenica, a via Tasso), spaccata in due. Nella prima, l’orrore della guerra, la resistenza, il carcere da gappista, le fughe e la clandestinità. La seconda, invece, è la vita dello scienziato con pubblicazioni in tutto il mondo, dal Canada al Giappone, «l’unico professore di matematica autodidatta, perché non l’ho mica studiata all’università, ero impegnato su altri fronti, diciamo...». Il trait d’union da una vita all’altra – e in realtà sono molte più di due, basta pensare all’ingaggio nei servizi segreti americani, alle frequentazioni da Vittorio Gassman a Mario Landi, all’amicizia con Ho Chi Minh... – il trait d’union, si diceva, è stata lei, Lucia Ottobrini, profuga alsaziana che sarà sua compagna di lotte e nella vita. «Vi svelo un segreto: se la conobbi, per certi versi, è stato anche grazie al fascismo...»

Davvero? Ci spieghi meglio...
«Il regime pretendeva che le bande dei carabinieri, della finanza o della polizia, allestissero dei concerti in piazza. E in uno di questi ho visto Lucia per la prima volta...»

Amore a prima vista?
«Di più, una fiammata che in 70 anni non si è mai smorzata, anche per lei, che fino all’ultimo (se ne è andata tre anni fa, ndr) ha pensato a me».

Lei abita ancora a due passi da via Rasella. Per tutti, questa strada, è quella dell’attacco ai tedeschi del 23 marzo 1944, trentatré soldati del Reich uccisi durante l’occupazione nazista di Roma. Il giorno dopo, per rappresaglia, il rastrellamento e la strage delle Fosse ardeatine. Lei è considerato l’ideatore di quell’attacco, ma non ha mai voluto chiamarlo attentato. Perché?
«In realtà io avrei voluto farlo in un’altra zona, non a via Rasella, forse le cose sarebbero andate diversamente. Né io né Lucia vi prendemmo parte direttamente. Io perché abitavo da quelle parti, lei perché era a letto con la febbre. In ogni caso, è giusto dire che fu un atto di guerra contro gli occupanti di Roma. Non un attentato. Ci furono diverse azioni, prima: l’attacco al carcere di Regina Coeli, alla caserma di viale Giulio Cesare, in via Tomacelli. Era una battaglia e via Rasella, dal punto di vista militare, fu un’azione ben studiata, senza perdite, per noi».

Non potevate immaginarne le conseguenze?
«No, prima di allora a nessuna delle azioni del Gap (Gruppi di Azione Patriottica, ndr) messe a segno a Roma era stata seguita da una rappresaglia. Pensi che il giorno dopo, il pomeriggio del 24, ci riunimmo con gli altri per parlare di possibili nuove azioni. Abbiamo saputo del rastrellamento solo a fatto compiuto».

Si è tanto discusso, in questi anni, dei presunti manifesti che i tedeschi avrebbero affisso in città perché vi consegnaste, per evitare quell’orrenda rappresaglia. Nessuno si consegnò.
«Quei manifesti non sono mai esistiti. Il rastrellamento per le Fosse ardeatine, del resto, è iniziato 24 ore dopo il nostro attacco. Anche Kesserling ha ammesso che non era stato dato alcun preavviso. Dirò di più: in ogni caso, anche se qualcuno li avesse messi, quei manifesti, sarebbe stato peggio. Perché si sarebbero consegnati a centinaia, pur di non farci prendere».

Cosa prova, oggi, quando passa a via Rasella? Rimorsi per le conseguenze per la tragedia delle Fosse ardeatine? In fondo è a due passi da qui, dalla casa dove abita con sua figlia Claudia e suo nipote.
«Non ci passo, scelgo altre strade. Ma la mia vita è sempre stata in questo pezzo di Roma. Sono nato in via della Purificazione, il 7 novembre 1918».

Dopo la Resistenza, la chiamavano l’uomo dei quattro nomi. Perché?
«Giovanni, come l’apostolo, Gandhi, per la magrezza, Fringuello, perché una volta atterrai col paracadute, Dino, come mi chiamavano in Piemonte. Ho dovuto cambiare spesso identità. Era una vita in clandestinità. Ricordo che durante la guerra partigiana parlavo di nascosto coi tipografi del vostro giornale, il Messaggero. A volte mi rifugiavo al Quirinale. Mi hanno anche preso. Quattro volte sono riuscito a evadere dal carcere, la più terribile è stata in Valtellina, le brigate nere...».

Guardando alla scena politica attuale, c’è chi, soprattutto a sinistra, agita la minaccia di un ‘fascismo di ritorno’, altri invece sostengono che siano situazioni imparagonabili. Che idea si è fatto?
«Ve lo dico io che sono il partigiano più decorato d’Italia. Sono infastidito quando si parla di fascismo e di antifascismo. Basta. Le brutture del fascismo sono evidenti, stanno lì. Ma parlarne a sproposito nuoce all’antifascismo. Oggi posso dire che andrebbe separato dall’uomo Mussolini, che come tutte le persone ha fatto del bene e del male».

Fa specie sentirlo dire da lei...
«Guardate, io credo che Mussolini abbia commesso un atto che è stato uno dei più coraggiosi della lotta contro Hitler. Quando i nazisti invasero l’Austria e uccisero Dollfuss, Mussolini spedì le truppe al Brennero per fermare la Germania ed evitare che occupassero l’Austria. È stato un atto coraggiosissimo, che andava premiato. Ma francesi e inglesi non l’hanno appoggiato, alla fine si è ritrovato isolato. Se non si fosse alleato con la Germania e avesse continuato a tirare su palazzi sulla Colombo, forse le cose sarebbero andate diversamente. Io, che sono stato amico di Ho Chi Minh, ho rischiato anche la vita per consegnare Mussolini vivo agli alleati».

Non doveva morire?
«No, non l’ho mai pensato, quell’esposizione a piazzale Loreto è stata barbara e incivile. Io all’epoca ero un maggiore dell’esercito americano, lavoravo per l’Office of Strategic Service. Mi mandarono l’ordine di prenderlo vivo e consegnarlo a loro. E io partii per portare a termine la missione. Ho rischiato la vita, ho dovuto affrontare difficoltà enormi. Sappiamo tutti come è andata a finire».

È stato un comunista atipico.
«Ho anche litigato – ma litigato sul serio – con Giorgio Amendola e Sandro Pertini. Più che atipico, sono stato un comunista indipendente».

Suo nipote, che ci ha aperto la porta, dice che vota Salvini. È un segno dei tempi?
«Ma non gli date troppa retta, a lui...». Lo indica, e sorride.
Ultimo aggiornamento: 14:15 © RIPRODUZIONE RISERVATA