IL CASO
VENEZIA Pochi, maledetti e subito, avevano pensato i 219 che non volevano

Domenica 14 Ottobre 2018
IL CASO
VENEZIA Pochi, maledetti e subito, avevano pensato i 219 che non volevano più saperne di Veneto Banca, alla vigilia della sua trasformazione da Popolare a Spa. Così quel minuscolo gruppetto di soci, lo 0,25% di un esercito che ne contava in tutto 87.504, aveva deciso di esercitare il diritto di recesso: consegnare le proprie azioni, ancorché a soli 7,30 euro l'una contro i 40,75 dei tempi d'oro, pur di portare a casa qualcosa e uscire in fretta dal tunnel. Ma mille giorni dopo, quella scelta si è rivelata un boomerang, visto che la maggior parte delle quote non è mai stata liquidata e il loro deposito continua a costare in termini di spese di gestione: «Oltre il danno, anche la beffa», commenta il trevigiano Augusto Fiorin, per quasi mezzo secolo correntista dello storico istituto di Montebelluna.
GLI IRRIDUCIBILI
Tutto comincia il 19 dicembre 2015, quando a Villa Spineda Gasparini Loredan sono all'ordine del giorno il passaggio di Veneto Banca da cooperativa a società per azioni, la sua quotazione in Borsa e l'aumento di capitale da un miliardo. Nell'ultima assemblea a voto capitario della storia montebellunese, il sì vince con il 97,12%. Fra coloro che dicono no, che si astengono o che non partecipano, ci sono però 219 irriducibili che decidono di esercitare un diritto costituzionalmente garantito: quello di recesso, disciplinato dall'articolo 2437 del codice civile, secondo cui il socio che non condivide una trasformazione societaria può uscire dalla compagine vedendosi liquidata la propria partecipazione. Questa volontà viene formalizzata entro il 7 gennaio 2016 e riguarda 2.017.248 azioni, cioè l'1,62% del capitale sociale, per un controvalore di 14,726 milioni, visto che il prezzo unitario è stato fissato dal Consiglio di amministrazione a 7,30 euro in base alle stime di quattro analisti. Uno schema che, di lì a pochi mesi, sarà replicato anche dalla Banca Popolare di Vicenza per lo 0,27% del capitale sociale, con un controvalore di 1,709 milioni, data la quotazione a 6,30 euro.
Da quel momento in poi i titoli non sono più nella disponibilità del socio, ma di fatto entrano nel capitale dell'istituto, che però mette le mani avanti: «Il rimborso delle azioni del socio che esercita il diritto di recesso da una banca popolare in occasione della sua trasformazione in società per azioni è assoggettato e subordinato alla possibilità per la banca di rispettare, a seguito del rimborso stesso, i requisiti prudenziali ad essa applicabili e, quindi, di ottenere l'autorizzazione da parte dell'Autorità competente per la riduzione dei fondi propri». Tradotto: la liquidazione delle quote non scatta in automatico, ma dipende dal loro riacquisto.
A tal proposito viene data facoltà di prelazione agli azionisti rimasti nella Spa, dopodiché in seconda battuta l'inoptato viene messo sul mercato degli investitori esterni. Ma ormai le ex Popolari sono nell'occhio del ciclone, sicché è dura trovare acquirenti. Per esempio delle 400 azioni di Fiorin, pensionato di Conegliano che per 48 anni ha creduto in Veneto Banca ma si accontenterebbe di recuperare 2.920 euro, ne risultano ricomprate solo 5. «Così mi vengono pagati 36,50 euro racconta, documenti alla mano a fronte dei 50 spesi per la pratica». E le altre 395? Come nel caso degli altri soci fuoriusciti, teoricamente dovrebbero essere liquidate dal gruppo di Montebelluna. Ma un regolamento emanato da Bankitalia l'11 giugno 2015, in attuazione della riforma delle Popolari varata dal governo Renzi, prevede delle limitazioni al diritto di recesso, per evitare che il patrimonio pregiato dell'istituto (tecnicamente il Core Tier 1) scenda sotto l'asticella della solidità fissata dalla Banca centrale europea. In sostanza Veneto Banca, alla pari poi di Bpvi e delle altre, può congelare il pagamento senza limiti di tempo e di importo.
I DUBBI
Sul punto fioccano i dubbi di costituzionalità, legati al fatto che un regolamento possa derogare al codice civile. Perplessità che peraltro vengono dissipate il 21 marzo 2018, quando su ricorso degli ex azionisti della Popolare di Sondrio la Consulta afferma che quel passaggio della norma «non lede il diritto di proprietà». Così i titoli restano depositati, nel caso di Fiorin alla Banca della Marca dove nel frattempo ha trasferito il suo conto, ma senza alcun valore effettivo. «Anzi sottolinea l'ex socio mi costano pure in termini di spese di gestione. Per carità, si tratta di pochi euro al trimestre, ma ne faccio una questione di principio: mi sento preso in giro, perché nessuno mi aveva detto che non sarei mai stato liquidato e da recedente ho perso il diritto di chiedere altre forme di indennizzo. Ad ogni modo non mi pento di aver detto no, come quando in un'assemblea avevo votato contro l'acquisizione di una banca piemontese in passivo per oltre un miliardo. Peccato che fummo solo in tre a farlo...».
Angela Pederiva
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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