IL CASO
BELLUNO «Facevamo prima ad andare al pronto soccorso di Pieve di

Martedì 16 Gennaio 2018
IL CASO BELLUNO «Facevamo prima ad andare al pronto soccorso di Pieve di
IL CASO
BELLUNO «Facevamo prima ad andare al pronto soccorso di Pieve di Cadore». Dolorante e in attesa da ore di essere visitato qualche paziente lo diceva sconsolato, mercoledì pomeriggio, seduto nella sala d'attesa al pronto soccorso del San Martino di Belluno. Di fronte il monitor che inesorabilmente segnava i codici verdi bloccati da ore, con attese infinite.
Lì seduta c'ero anch'io: non per un'inchiesta giornalistica, ma per ricorrere alle cure mediche. Inevitabilmente però, dopo oltre 6 ore in quella sala d'attesa, ho avuto modo di toccare con mano l'emergenza che vive il pronto soccorso di Belluno. Non intendo, ovviamente, emergenza sanitaria: codici rossi sono la routine per tutte le unità operative di questo tipo. Al pronto soccorso del San Martino c'è un'emergenza di personale, ed è sotto gli occhi di tutti.
D'altronde è inevitabile, facendo due conti: sono 5 gli infermieri che devono dividersi tra triage, astanteria, ambulatori e Suem, dove in caso di codice rosso devono uscire in due. Nessuno ha il dono dell'ubiquità e fanno del loro meglio. Ci sono poi 3 medici, uno dei quali dedicato al Suem. Infine 2 operatori socio sanitari, a volte non disponibili perché impegnati in dimissioni. Ma il peggio scatta dopo le 22: tutto resta nelle mani di 3 infermieri e un medico. Se c'è un codice rosso in Suem 2 infermieri escono e ne resta solo uno.
E i pazienti? Quel giorno ce ne erano 36. Ma capita, come sabato, di trattarne anche 110. E come possono farcela? Inevitabilmente il servizio rallenta, scatenando le proteste dell'utenza, che deve anche sborsare quasi 100 euro per le prestazioni. Si paga il ticket, come previsto dalle regole regionali per codici verdi dimessi bianchi (esenti pazienti con corpi estranei, fratture, ricoveri, codici gialli con parametri vitali compromessi).
Ma sicuramente nessuno va al pronto soccorso per divertirsi: chi ci va, sta male. E alla sofferenza si aggiunge lo stress dell'attesa infinita, come ho avuto modo di vedere in prima persona. «Sono qui da stamane», diceva un paziente, che è potuto tornare a casa solo alle 20.30. Una donna con la punta del dito tagliato attendeva da ore di vedere un medico. Poi quando ci riesci, a vederli i medici, la loro professionalità, competenza e gentilezza ti ripaga di tutto. Come quella degli infermieri, che non perdono mai la pazienza, anche se tutta la rabbia dell'utenza si rovescia su di loro, che sono fuori in astanteria, e ci mettono la faccia con i pazienti. Ma sono evidentemente condizioni di lavoro impossibili. Ora sono a conoscenza anche dei vertici dell'azienda, visto che è partita di recente una comunicazione ufficiale. Condizioni di lavoro in cui il paziente, a volte, si sente trascurato. Superlavoro in cui accade, come nel mio caso, che alla fine vieni dimessa senza che nessuno ti tolga nemmeno l'ago al braccio per i prelievi: lo ho dovuto togliere da sola.
Olivia Bonetti
© RIPRODUZIONE RISERVATA

PIEMME

CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ

www.piemmemedia.it
Per la pubblicità su questo sito, contattaci