IL CASO
BELLUNO Diffamò il noto alpinista Franco Miotto di Limana gettando

Venerdì 10 Agosto 2018
IL CASO
BELLUNO Diffamò il noto alpinista Franco Miotto di Limana gettando fango sulla prima ascensione diretta alla parete sud-ovest del Pelmo del 1977. Arriva la parola fine della Cassazione, che, con sentenza definitiva, condanna Giovanni Groaz, 62enne alpinista piemontese residente a Trento. Oltre a confermare la sentenza di secondo grado che inflisse a Groaz una multa di 400 euro e l'obbligo di risarcire il danno causato a Miotto, la Suprema corte lo ha condannato a 2mila euro di multa e al pagamento delle spese processuali visto che il ricorso era inammissibile.
LA GUERRA
A innescare la battaglia tra i due colleghi di scalata fu il libro Pareti del Cielo, in cui Miotto narrò quell'ascensione al Pelmo. Con lui in cordata, Groaz e Riccardo Bee, che poi morirà sull'Agner. Era l'unico testimone che avrebbe potuto far chiarezza su quanto avvenne in quel 1977 sul Pelmo. Groaz, con il libro alla mano, nel 2010 denuncia Miotto, perché «le cose non andarono come raccontato in quelle pagine». Intraprende contro il collega una battaglia non solo in Tribunale, ma anche al Cai, annunciando di volerne chiedere la radiazione.
MAIL INCRIMINATA
Nel gennaio del 2014 Groaz procede con la sua guerra. Invia una mail al Cai di Belluno in cui scrive: «Franco Miotto cercò in tutti i modi di ostacolarmi non controllando lo stato delle corde e sperando che mi fermassi alla cengia. Poi quando capì che stavo progredendo verso la vera mise in atto l'ultimi luciferino espediente di smuovere una miriade di sassi».
LA SENTENZA
Parole pesanti che danno una ricostruzione ben diversa di quell'ascesa rispetto a quanto riportato nel libro dall'alpinista limanese. Il Tribunale di Trento (competente visto che la mail era partita da lì, dove abita Groaz) condannò l'alpinista, sentenza confermata in secondo grado e ora diventata definitiva. La difesa dell'alpinista piemontese portata avanti fino al terzo grado sosteneva che la diffamazione aggravata non c'era visto che la mail «non può ritenersi inviata ad un numero indeterminato ed incerto di persone, essendo la casella di posta elettronica del Cai munita di password, per cui era impossibile per soggetti diversi da quelli a cui era indirizzata la posta, accedere alla lettera in questione». Ma la verità processuale ha stabilito diversamente, facendo chiarezza su quella epica salita al Pelmo.
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