Un anno fa applausi, ora gelo: i vicepremier e la città delusa

Giovedì 15 Agosto 2019
Un anno fa applausi, ora gelo: i vicepremier e la città delusa
IL REPORTAGE
GENOVA Non si salutano. Non si sfiorano. Non si guardano. Neanche dissimulano le buone maniere. Li hanno fatti sedere vicini, in prima fila, Di Maio e Salvini. Solo un posto c'è a dividerli ed è quello che doveva occupare il ministro Moavero. Ma non arriva e il seggiolino rimane vuoto, a complicare la vicinanza-lontananza tra i due ex sodali che platealmente ieri hanno detto a tutti i presenti alla cerimonia per le vittime dei ponte Morandi, e agli italiani che l'hanno guardata in tivvù, che non si sopportano più.
UN SET NAZIONAL-POPOLARE
Lo spettacolo della fine del governo giallo-verde i due protagonisti lo hanno voluto inscenare proprio su un set che più nazional-popolare di questo non si potrebbe immaginare. È un messaggio alla nazione quello inviato da Genova da Salvini e Di Maio. In cui s'inserisce in maniera paradossale il premier Conte. È in uscita? Non si direbbe da come si comporta. Parla sempre al futuro: «Faremo...», «Avvieremo...», «Cambieremo...». «Lavoreremo ancora e sempre di più per i familiari delle vittime e per gli sfollati...». Vede un orizzonte lunghissimo davanti a sé, un avvenire radioso, e non riesce a considerarsi un ex. Comunque non prende applausi l'avvocato del popolo. L'unico simbolo riconosciuto della politica nazionale, da parte dei presenti, è il presidente Mattarella. Che s'intrattiene con i familiari delle vittime in maniera meno esibita di come fanno Conte, Salvini e Di Maio ma meglio percepita da questo popolo dolente. Che si affida, battendo le mani, agli amministratori locali, al sindaco Bucci e al governatore Toti. E che trova nell'abbraccio di Mattarella la solidità di un grande appiglio.
Intanto è arrivato proprio il sindaco genovese a sedersi nel posto vuoto tra Di Maio e Salvini. Ma non serve una diga tra i vicepremier per impedire che il reciproco disprezzo tracimi, perché i due semplicemente si ignorano. Esibiscono una vicendevole indifferenza polemica. Alla sinistra di Matteo, alcune sedie più in là, c'è Bonafede quello della «ridicola riforma della giustizia» secondo il leader leghista. Tutto si svolge sotto il primo pilone del nuovo ponte. E i familiari delle vittime sono in questa modalità rispetto al governo al tramonto: «Qui non si capisce più niente: i ministri sono in carica oppure no?», dice una signora che ha perso la casa sotto il peso del Morandi. E due fratelli genovesi, che hanno perduto madre e padre nel crollo di un anno fa, chiosano: «Ma tanto non cambia niente se il governo è in carica oppure no. Ha fatto solo polemiche inutili, concessioni, non connessioni, revoca, non revoca, invece di rimboccarsi davvero le maniche». E ancora: «Speriamo solo che la crisi di governo non rallenti tutto. E il ponte che dovrebbe arrivare tra nove mesi non arrivi tra nove anni». Chi chiede a Salvini lumi sulla crisi si sente rispondere: «Non è questo il luogo per parlarne». Ma a un certo punto gli si avvicina Zingaretti, gli parla per cinque minuti, Matteo annuisce e hanno tutta l'aria di due che si stanno dicendo: «Avevamo ragione noi, bisognava andare a votare subito e invece tutto si sta complicando sia per me sia per te». E Matteo ha bisogno dei voti del Pd il 20 agosto in aula al Senato sennò Conte non schioda.
Si vede che tra loro, pur nella lotta, una dimestichezza di dialogo esiste. Invece Zingaretti qui a Genova non fa prove di inciucio con Di Maio, forse perché vuole l'accordo con i Cinquestelle ma senza Luigi tra i piedi. Con Fico, sarebbero stati baci e abbracci.
Salvini ostenta il suo isolamento rispetto alla compagnia del governo morente. Si sfiora con la Trenta, ma neppure uno sguardo. Bonafede siede a due metri da lui ma lui preferisce parlare con Toti. Erika Stefani commenta con Tria le vicissitudini del governo e non con Toninelli che le sta accanto. Il quale è tra l'altro autore di una delle battute più inopportune della storia della caduta del ponte - quella twittata insieme alla sua foto mentre si taglia i capelli: «Ho revocato la revoca della concessione al mio barbiere» - e per questo e per tutto il resto vorrebbe essere invisibile e lo è.
Arriva l'arcivescovo Bagnasco, fa un appello alla buona politica e stronca quella che c'è o che c'era: «Non guardare solo agli interessi individuali e di parte, basta con le miopie e le rivalità». Una strigliata, ecco. E ancora: «Lo stare insieme e il lavorare insieme non dev'essere solo una regola per questa città. Occorre rimanere uniti, così i pochi pani e i pochi pesci della parabola evangelica si moltiplicheranno, per il bene di Genova e del nostro amato Paese».
IL ROSARIO
Alcuni familiari delle vittime hanno in mano il rosario, mentre Salvini stavolta no ma dice: «Prego per voi e per i vostri cari che non ci sono più». Ma non si fa la comunione San Matteo, Di Maio invece prende l'ostia dalle mani del cardinal Bagnasco. E volta di nuovo le spalle a Salvini. I due vicepremier sono affiancati quando il vescovo dal pulpito dice «scambiatevi un segno di pace» ma Salvini si spinge al massimo a scambiarlo con Tria, mentre Di Maio con chiunque altro ma mai con un leghista anche se ha la Stefani a portata di mano. Sono così convinti che sia tutto finito che non hanno bisogno di benedizioni. La messa finisce con l'«andate in pace». Ma è guerra.
Mario Ajello
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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