Thalassa, faro dei pm su presunte aggressioni I profughi: meglio morire che tornare in Libia

Sabato 14 Luglio 2018
L'INCHIESTA
ROMA Navere minacciato qualcuno. Sostengono che il timore nell'equipaggio si stato generato dalla loro incapacità di esprimersi, dalla paura che li ha colti, quando hanno capito che la Vos Thalassa, aveva cambiato rotta e il rischio era di tornare in Libia. Così i 67 migranti, sbarcati giovedì notte a Trapani, dopo ore di attesa, e un lungo braccio di ferro nel governo, hanno spiegato a verbale, qullo stato di tensione che ha portato l'equipaggio a chiedere l'intervento della capitaneria. «Eravamo pronti a morire pur di non tornare in Libia». A raccogliere le loro dichiarazioni il personale della squadra mobile di Trapani, dello Sco e i militari del Nsi della Guardia costiera. Tra i migranti anche il sudanese Ibrahim Bushara e il ganese Hamid Ibrahim, i due indagati in per violenza privata continuata ed aggravata nei confronti del comandante e dell'equipaggio del rimorchiatore. La procura di Trapani vuole fare chiarezza su quanto accaduto prima dell'sos inviato dall'equipaggio. Ma ci tiene a tenersi fuori da polemiche: i magistrati agiscono in base agli atti della Polizia giudiziaria, seguendo le regole e la legge, dicono fonti del Palazzo di via 30 Gennaio. Nessun commento sui tweet di Salvini. Al ministro dell'Interno replica l'Anm: «Il lavoro dei magistrati della Procura di Trapani venga lasciato proseguire senza interferenze».
L'ACCUSA
La Procura ha ritenuto che uno solo dei tre reati ipotizzati dagli investigatori fosse contestabile, la violenza privata aggravata, ma non l'appropriazione di nave e le minacce. Posizione che non è mutata. Ma le indagini vanno avanti , anzi si allarga, con apposite deleghe alla squadra mobile, allo Sco e al Nsi. Sulla presenza di scafisti nel gruppo e sulla ricostruzione del dopo salvataggio sulla Vos Thalassa.
VERSIONI CONTRASTANTI
Gli uomini dell'equipaggio hanno sostenuto di essersi sentiti minacciato gravemente, quando i migranti hanno scoperto che la nave li stava riportando indietro. Avrebbero gridato «no Libia, Libia, sì Italia», poi avrebbero circondato l'equipaggio, spintonando il primo ufficiale e mimato con la mano il gesto ti accoltello alla gola. È a quel punto che sarebbero partiti i contatti con la sala operativa della capitaneria di porto di Roma, che ha inviato sul posto la Diciotti per prendere a bordo i profughi. I primi racconti dei migranti sarebbero diversi, avrebbero supplicato con insistenza il comandante e l'equipaggio a non riportarli in Libia, pressandoli, e scambiando la loro paura con minacce. Hanno detto di essere terrorizzati, di non volere tornare in Libia anche a costo di «morire gettandosi in mare». «Non ci hanno capiti - hanno spiegato - perché nessuno parlava la nostra lingua. Aggressione? Nessuna, hanno frainteso il nostro stato d'animo di persone terrorizzate». Tanto che, hanno sottolineato, tutto «è durato non più di 10 minuti». Potrebbe essere questa la discriminante determinante per l'inchiesta. Paura e minacce reali o percezione accentuata anche dall'inferiorità numerica?
Per fare chiarezza in fretta gli investigatori stanno accelerando gli interrogatori, con l'assistenza di mediatori e interpreti, dei 67 migranti, che sono ospitati nell'hotspot di contrada Milo, per tentare di cristallizzare i fatti e presentare un rapporto dettagliato alla Procura che potrebbe, di fronte a fatti nuovi, cambiare posizione e fare valutazioni diverse. Non con un fermo di indiziato, ma con una vera e propria ordinanza di custodia cautelare, qualora ve ne fossero gli estremi. Intanto sulla Diciotti, da giovedì ormeggiata nel porto di Trapani, sono in corso i lavori di rimessaggio e di rifornimento, prima di mollare gli ormeggi e riprendere il servizio in mare.
S. G.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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