Quando il Napoli vinse il suo primo scudetto nella primavera del 1987, qualcuno

Giovedì 26 Novembre 2020
Quando il Napoli vinse il suo primo scudetto nella primavera del 1987, qualcuno scrisse a caratteri enormi sul muro di cinta del cimitero: Guagliò, che ve siete persi!. E in un'edicola votiva, scavata nel muro, al posto di San Gennaro avevano dipinto Maradona che calciava il pallone in direzione del camposanto. Sulla parete di un palazzo in demolizione del Rione Sanità nella notte fecero in tempo a disegnare Maradona grande quasi quanto Totò.
Era il più grande, il solo che non aveva bisogno di mostrarlo ogni giorno. Parliamo di pallone, a Pelè occorreva fare gol per affermarsi, a lui bastava meravigliare. Nel calcio era come Picasso o come Chaplin, all'uno e all'altro era sufficiente un segno o una bombetta per essere riconosciuti. A Maradona una rabona o un calcio di punizione, o una rete segnata con la mano, tanto quella diventava subito la mano de Dios. Ha vinto tutto praticamente da solo: due scudetti, un po' di Coppe, e un campionato del mondo. Raramente un calciatore è diventato mito in vita, uno al quale perdonavano tutto, applaudivano i gol e dimenticavano gli errori. Enorme come talento calcistico, con troppi confini e limiti come uomo. Era come se l'uomo Maradona se ne fosse andato a spasso per il mondo mentre il calciatore era rimasto impresso nel muro, invocato come un santo, e come un santo chiamato miracoloso. Avevano persino fondato una chiesa intitolata a lui, la Iglesia Maradoniana, il calendario si contava dalla sua data di nascita. Il mondo prima di Diego non esisteva.
Diego Armando Maradona, morto a 60 anni appena compiuti, era morto e rinato molte volte. Aveva un passato ventennale di dipendenza dalla droga e una lunga strada di riabilitazione, non sempre riuscita. Era ingrassato come un vecchio pugile gonfio di pugni e aveva indebolito un cuore precocemente stanco. Aveva cercato cure non tutte ortodosse in giro per il mondo, era andato a trovare amici strani per un calciatore, come la volta che fu ospite a Cuba del vecchio Fidel Castro - morto come lui (e come George Best, altro poeta del pallone) un 25 novembre - e si sorbì la retorica del dittatore sotto una serie infinita di fotografie del Che, l'altro argentino come lui. O come quando girava per campi non tutti gloriosi per mettere insieme i soldi per le troppe famiglie e i troppi figli da mantenere.
Lui era nato per il calcio, già da bambino pieno di riccioli ai microfoni di una televisione argentina aveva detto: Il mio sogno è vincere la Coppa del Mondo di calcio con la maglia biancoceleste del mio paese. Ragazzino profetico, che prima di finire le elementari era nell'Argentinos Juniors, che il giorno prima di compiere sedici anni esordiva nella massima serie. Il Barcellona spese 12 miliardi di lire nel 1981 per portarlo in Spagna; ai mondiali dell'82 Bearzot gli incollò Gentile che lo seguì fino a dove il campo non aveva più fili d'erba. Un difensore spagnolo feroce gli ruppe la gamba, si rimise in piedi e nel 1984 Ferlaino e il Napoli sborsarono 14 miliardi per inseguire il sogno. Fu scudetto nel giro di pochi anni, il primo nella storia del Napoli.
Il giorno che Maradona si presentò al San Paolo, gli spalti si riempirono di 70 mila spettatori arrivati solo per vederlo palleggiare. E Maradona fece il miracolo, lanciò in aria il pallone e non lo fece più cadere per terra. Palleggiare gli riusciva naturale, con qualsiasi oggetto avesse tra i piedi. Era la gioia del bambino cresciuto nella periferia chiamata Villa Fiorita, ma dove non crescevano gli alberi. Il pallone era il riscatto, saperlo tenere in cielo la gioia. Ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per la strada, lì ricomincia la storia del calcio, scriveva un grande argentino, Borges.
Maradona era partito da quei campi di terra spelati ed era diventato il più grande. Ha giocato quasi 600 partite, ha segnato più di 300 gol, una media mostruosa, anche perché non era un attaccante di ruolo, un goleador. Lui era il Numero 10. Col Napoli di scudetti ne ha vinti due e sfiorati un altro paio. Con la Nazionale in Messico nel 1986 ha praticamente vinto il mondiale da solo, contro tutti. Era l'Argentina che risollevava la testa dopo la brutta figura delle isole Malvine e lui punì l'Inghilterra con l'astuzia e con la bravura. Fece un gol con la mano e tutti dissero che quella era la mano de Dios. Ne fece un altro scartando l'intera squadra inglese e tutti dissero che quello era il gol del secolo. Era grande nei sentimenti, nelle amicizie, nei vizi, nei gesti. Capace di giocare con la caviglia gonfia, di correre in soccorso dei compagni meno fortunati. Attaccava senza esitazioni i vertici del mondo del calcio, aveva problemi col fisco, ci fu un periodo in cui non poteva rientrare in Italia. Una sera a Che tempo che fa fece il gesto dell'ombrello in direzione di Equitalia che lo cercava per decine di milioni di euro di tasse non pagate.
Pensava di essere rimasto, anche ormai cinquantenne e imbolsito, Il Pibe de oro, il bambino d'oro, ma avvertiva il peso di una vita consumata. Cocaina, prostitute, alcol. Sbagliava e lo giustificavano. Tanti di quelli che erano la sua corte lo hanno abbandonato quando i suoi gol valevano meno dello scandalo, quando le sue punizioni erano meno velenose della cocaina. Si è bruciato da solo, ha lasciato che il suo lato oscuro allargasse un'ombra sempre più nera perfino sul talento.
Ecco, se si vuole trovare un'immagine dell'ultimo Maradona era quella di un uomo vinto dalla malinconia. Non riusciva più a essere allegro, non era più il demone che ci ha portato in paradiso, come dicevano i napoletani. Era triste, sconfitto dalla vita che non gli permetteva più di rialzarsi. Era entrato così nell'ospedale per l'operazione alla testa, ne è uscito solo per andare a morire. Non era più il ribelle che si vantava: «Se fossi ad un matrimonio con un vestito bianco e mi arrivasse un pallone sporco non esiterei a stopparlo di petto». Sapeva che il pallone non lo avrebbe mai sporcato. Era l'unica cosa che sapeva fare davvero bene, la sola cosa che poteva tenere in cielo per ore. Ma non poteva sapere cosa ci fosse oltre le nuvole.
Edoardo Pittalis
© RIPRODUZIONE RISERVATA
© RIPRODUZIONE RISERVATA

PIEMME

CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ

www.piemmemedia.it
Per la pubblicità su questo sito, contattaci