Pakistani sfruttati per stampare i libri di Grafica Veneta

Martedì 27 Luglio 2021
L'OPERAZIONE
PADOVA Costretti a turni che arrivavano a 14 ore di lavoro, in condizioni di semi schiavitù. E poi picchiati, legati, derubati di tutto se osavano ribellarsi. Erano le condizioni di una ventina di lavoratori pakistani dipendenti di un'azienda trentina, utilizzati come manodopera nei magazzini di Grafica Veneta, il colosso dell'editoria di Trebaseleghe, nel Padovano. Una vicenda «sconcertante» e una situazione «irrispettosa dei diritti non solo dei lavoratori, ma di quelli che spettano a qualunque essere umano», come l'ha definita il procuratore capo della Procura di Padova, Antonino Cappelleri, di cui, secondo gli inquirenti, i vertici di Grafica Veneta erano a perfettamente a conoscenza. E per questo l'amministratore delegato e il direttore dell'area tecnica dell'azienda, Giorgio Bertan, 43 anni, e Giampaolo Pinton, 60, sono tra gli 11 arrestati dai carabinieri di Padova, guidati dal colonnello Luigi Manzini, nell'operazione Pakarta. Si trovano agli arresti domiciliari con l'accusa di sfruttamento del lavoro. Altre misure cautelari sono state disposte a carico di 9 pakistani responsabili dei reati di lesioni, rapina, sequestro di persona, estorsione e sfruttamento del lavoro: cinque, tra cui i due titolari dell'impresa trentina, la B.M. Services sas con sede a Lavis - padre e figlio con cittadinanza italiana - sono in carcere (Arshad Mahmood Badar di 54 anni, il figlio Asdullah, di 28, Hassan Bashir, di 31, Zaheer Abbas, di 33, e Muhammad Rizwan Haider, di 34) quattro sono tutt'ora ricercati. Altri due pakistani - Raja Muntazir Mehdi, 30enne, e Mahmood Nasir, 39enne, hanno il divieto di dimora in Veneto per il solo concorso in rapina. E nei guai è finito anche l'elettricista Cristian Gasparini, 48enne residente a Preganziol (Tv) per aver ostacolato il controllo dei carabinieri del Gruppo Tutela del Lavoro proprio all'interno di Grafica Veneta.
L'INDAGINE
Tutto è iniziato quando a maggio dell'anno scorso sono stati trovati abbandonati per strada, legati e malmenati, alcuni pakistani, in vari punti della provincia euganea. Altri cinque operai connazionali si erano presentati spontaneamente al pronto soccorso di Camposampiero per avere subito un analogo trattamento. I carabinieri hanno scoperto che le aggressioni erano legate ad un unico evento e che era legato allo sfruttamento di lavoratori, tutti pakistani, da parte di un'organizzazione composta da connazionali, che si avvaleva della facciata di una società, con sede nel trentino, che forniva operai ad alcune aziende del Nord Italia. Oltre che Grafica Veneta, la ditta forniva servizi anche a un'altra azienda editoriale padovana, di Loreggia, al momento estranea all'inchiesta.
COME FUNZIONAVA
Dalle indagini è emerso che i componenti dell'organizzazione, i Badar, padre e figlio, usavano metodi violenti per soggiogare e intimidire i lavoratori, connazionali, tutti alloggiati in due case tra Trebaseleghe e Loreggia, in cui erano stipati rispettivamente in 20 e in 15.
Bertan e Pinton, l'amministratore delegato e il responsabile della sicurezza della Grafica Veneta, sarebbero stati a conoscenza della situazione di illegalità e avrebbero provato a inquinare le prove. Secondo gli inquirenti e come registrato nell'ordinanza anche dal Gip, infatti, i due avrebbero saputo dello sfruttamento dei lavoratori stranieri, sia per quanto riguarda gli incessanti turni di lavoro, che per la sorveglianza a vista a cui erano sottoposti. Sarebbero stati, inoltre, consapevoli delle degradanti condizioni di lavoro, della mancata fornitura dei Dpi (scarpe antinfortunistiche, protezioni da rumori). Tale situazione ha comportato un tentativo di elusione dei controlli, edulcorando o eliminando dai server informatici gran parte dell'archivio gestionale che registra gli ingressi e le uscite dei lavoratori.
LA SITUAZIONE
L'Arma ha accertato che i Badar assumevano connazionali per brevi periodi, stipulando regolari contratti di lavoro (part-time e full-time). In realtà, però, gli operai lavoravano anche fino a 14 ore al giorno, senza alcuna pausa, senza ferie, né altra tutela: venivano portati in furgone all'alba al lavoro e riportati a casa solo nel tardo pomeriggio. I pakistani versavano gran parte dello stipendio ai due titolari, che avevano i loro bancomat e i loro pin. Le vittime erano anche costrette a pagarsi l'affitto per il posto letto: dai 100 ai 150 euro al mese. Capito di essere sfruttati, alcuni di loro si erano rivolti a un sindacato e per questo sono stati pestati a sangue e abbandonati. Anche le loro famiglie sono state minacciate..
IL COMMENTO
Cappelleri ha definito la vicenda sconcertante: «La particolarità di questo caso di caporalato è la complicità, che credo che siamo riusciti a dimostrare in pieno, dell'azienda italiana con quella gestita dai pakistani, nonostante le solide condizioni economiche e la possibilità di operare in maniera regolare. Sono riusciti a delocalizzare un settore nella loro stessa sede, appaltando manodopera a prezzi bassissimi, sui 4,5 euro all'ora, risparmiando di fatto anche sui costi del trasporto della delocalizzazione».
Cappelleri usa parole durissime: «È inquietante come da una parte l'azienda si sia dimostrata sensibile ai temi sociali, ad esempio fornendo mascherine nel pieno della pandemia, quando non ce n'erano, e dall'altra parte agisse in modo irrispettoso non solo dei diritti dei lavoratori, ma del genere umano».
Marina Lucchin
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