Ndrangheta in Veneto nuova retata: 33 arresti, cento persone indagate

Giovedì 16 Luglio 2020
L'INCHIESTA
VENEZIA «In Verona e provincia, dal 1981 all'attualità; con permanenza in atto».
Trentanove anni.
È l'arco temporale racchiuso nelle 273 pagine firmate dal giudice per le indagini preliminari di Venezia Francesca Zancan in cui si descrive l'infiltrazione, prima, e il radicamento, poi, della ndrangheta nel basso Veronese tra Sommacampagna, Villafranca Veronese, Valeggio sul Mincio, Lazise, Isola della Scala. Una struttura, scrive il gip ricalcando il quadro accusatorio del sostituto procuratore antimafia di Venezia, Patrizia Ciccarese, «con autonomia operativa, composta da membri dei ceppi familiari Gerace-Albanese-Napoli-Versace», originarie della Piana di Gioia Tauro e «appartenente» alla ndrangheta, «organizzata sulla base di regole formali e dei livelli gerarchici e funzionali propri del Crimine di Polsi», la struttura di governo e decisionale al di sopra dei tre mandamenti in cui è stata suddivisa la Calabria: Jonico, Tirrenico e Città.
33 ARRESTI
Un gruppo che dal 1981 si era trapiantato nel Veronese, spartendosi il territorio con altre ndrine, smantellato ieri mattina dai carabinieri del Ros che hanno notificato 33 misure di custodia cautelare (25 in carcere, 1 arresto domiciliare e 7 obblighi presentazioni quotidiana alla polizia giudiziaria), indagando oltre cento persone tra Veneto, Lombardia, Emilia Romagna e Calabria e sequestrando beni e soldi per un equivalente di oltre 3 milioni di euro. Quanto cioè il gip di Venezia ritiene sia il frutto dell'operazione del sodalizio. Che oltre a reati come traffico di stupefacenti, estorsione, rapina, usura, ricettazione, riciclaggio, turbata libertà degli incanti, furto aggravato, favoreggiamento, violazione delle leggi sulle armi, ha visto contestare a otto persone l'associazione a delinquere di stampo mafioso. Se non proprio capi, a tirare le redini dell'organizzazione che nel Veronese si era impegnata in furti di ferro anche da una stazione ferroviaria, pestaggio di sindacalisti, spaccio di droga e riciclaggio di denaro sporco, erano Carmine Carminello Gerace, Antonio Albanese, Giuseppe Napoli, Giuseppe, Diego e Francesco Versace («classe 63» nell'ordinanza), Agostino Napoli e Mario Gerace. A loro procura e gip contestano l'associazione mafiosa. Che era riuscita a mettere le mani anche sulle realtà turistiche della zona del lago di Garda. E proprio il racconto di un ristoratore pentito, che dal Garda aveva parlato di traffici di droga e spartizione della ndrangheta del territorio, aveva dato il via all'indagine, nel 2013.
IL RAPPORTO DIRETTO
Ciò che emerge è come non sia mai stato tagliato il cordone ombelicale con la Calabria. Scrive il gip: «II legame del sodalizio in esame con la casa madre in Calabria emerge in tutta evidenza in occasione di dissidi con le altre cosche e va detto che, nelle interazioni tra esponenti delle diverse cosche, si rileva una condivisione di una sorta di codice etico da parte di tutti i soggetti». È in quell'occasione che nel Veronese si presenta un emissario dalla Piana di Gioia Tauro.
Quando chiede chi comanda, si sente rispondere «Albanese Antonio è il capo bastone e Giuseppe Napoli è il mastro di giornata», ruoli tipici della ndrangheta. Come a dire che nel Veronese, ci fosse una situazione riconducibile alla realtà calabrese. Interessata anche a far assumere propri uomini in aziende che poi avevano vinto regolari appalti per lavorare all'aeroporto Catullo di Treviso. Ma anche, ad esempio, a frodare l'Inps con certificati falsi ottenuti attraverso minaccia alle strutture sanitarie. Minacce esplicite o a volte velate. «Comportamenti - sottolinea il comandante del Ros, il generale di divisione Pasquale Angelosanto - conferma l'enorme pericolosità della ndrangheta nel territorio ma anche la capacità che ha di corrompere e di inserirsi nel contesto sociale attraverso rapporti corruttivi».
Ma far parte di una stessa casa madre è anche venirsi in mutuo soccorso. Così tra l'immensa mole del denaro riciclato attraverso giri di assegni coperti con pezze giustificative di fatture per operazioni inesistenti, nel 2016 spunta il mutuo soccorso alla cosca Grande Aracri, appena condannata non via definitiva nel processo Aemilia. Così le somme messe vie dai protagonisti dell'indagine finiscono nel Veronese e vengono riciclati grazie all'aiuto degli imprenditori della zona. Gli stessi, sostiene l'accusa, che da un giro simile si guadagnavano una percentuale sul giro di soldi.
Nicola Munaro
© RIPRODUZIONE RISERVATA
© RIPRODUZIONE RISERVATA

PIEMME

CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ

www.piemmemedia.it
Per la pubblicità su questo sito, contattaci