«La sanità in Lombardia non è all'altezza, è debole»

Mercoledì 25 Marzo 2020
I camion militari che portano via le bare sono l'immagine del dolore di una città che non riesce nemmeno a seppellire i suoi morti. E non è accaduto solo una volta, perché questi luttuosi convogli avvengono a giorni alterni. Solo la scorsa settimana in provincia di Bergamo il Covid-19 ha ucciso oltre 300 persone. «La popolazione sta soffrendo molto, sempre con grande sobrietà, quella sfilata di mezzi fa capire cosa stia succedendo veramente qui, racconta i drammi personali. Ognuno in città ha una persona cara malata, in ospedale o deceduta». Giorgio Gori sta combattendo la battaglia più dura da quando, a giugno 2014, è diventato sindaco di Bergamo. Ora, dice, «la mia agenda è completamente vuota, eventi e appuntamenti ordinari cancellati, ma lavoriamo dalle otto di mattina finché non crolliamo stremati la sera».
Il lavoro più delicato è il coordinamento tra voi sindaci e la Regione Lombardia.
«Ho cercato di tenere un raccordo stretto, quotidianamente tutti noi sindaci delle città capoluogo ci sentiamo in videoconferenza. Dobbiamo tenere stretti i bulloni, per la sanità lombarda è una prova inimmaginabile, è necessario dialogare soprattutto con chi sta negli ospedali. Qui in provincia abbiamo un deficit che riguarda la sanità di territorio, che non è confrontabile con quella di Veneto ed Emilia Romagna. Purtroppo ora ne abbiamo la prova. La struttura dei medici di medicina generale, che è il primo baluardo contro il contagio, è debole, troppe persone arrivano in ospedale tardi e in pessime condizioni, devono essere intubate in terapia intensiva. Molte in ospedale non riescono proprio ad arrivare e muoiono a casa: sono pazienti Covid-19 non censiti, che sfuggono ai radar della mappatura del contagi. Solo in provincia sono 112. Si fa fatica a dare assistenza con l'ossigeno, a intercettare per tempo queste persone e in ospedale non c'è posto per tutti. Servirebbe una rete territoriale più forte, perché quella che abbiamo non è all'altezza».
Come avete reagito?
«Noi proviamo a rafforzarla con il volontariato, ad esempio abbiamo creato un sistema di autisti che aiutano i medici negli spostamenti per le visite. Ma come se non bastasse abbiamo una prima linea in guerra senza armi, ovvero senza mascherina, e questa è un'ulteriore criticità. Il fronte delle attrezzature come ventilatori, respiratori e personale medico resta un problema. La prima cosa che ci serve, anche per l'ospedale da campo a Bergamo, sono medici e infermieri. Abbiamo chiamato i dottori di strutture private o in pensione per reclutarli. La gravità di quello che stava arrivando è stata sottovalutata da tutti noi, però era difficile avere la misura giusta».
Presto arriverà il nuovo ospedale da campo in Fiera.
«Sarà operativo entro fine settimana. C'è stata un po' di esitazione in partenza, la Regione ci ha detto: aspettate, siete sicuri di avere medici a sufficienza? Noi ci siamo fatti sentire, ora stanno lavorando gli alpini e in raccordo con il Papa Giovanni XXIII nel giro di pochi giorni avremo un nuovo punto di raccolta per le auto mediche dove effettuare lo screening, con ossigeno e letti per la terapia intensiva. Lavoreranno, tra gli altri, i medici di Emergency e un contingente di dottori russi appena arrivato, che farà base in una caserma vicino all'aeroporto».
Con una zona rossa sarebbe accaduto tutto questo?
«Qui, come a Brescia, la zona rossa non serviva. Bisogna avere uno sguardo più ampio: il focolaio era ad Alzano Lombardo, se si fosse chiusa la media Valle Seriana come Codogno avremmo avuto molti meno morti. Io ho chiesto misure più restrittive con tutta la forza che avevo, ma alcuni amministratori non erano convinti, ritenendo fosse la fine per tante aziende. Il mondo imprenditoriale era preoccupato, queste non sono aree rurali come il lodigiano, sono fortemente industrializzate. Capisco perfettamente la preoccupazione dei lavoratori, ma non credo che lo sciopero generale sia la mossa giusta. Laddove non c'è sicurezza, invece, bisogna fermarsi».
È preoccupato per il dopo coronavirus, sindaco?
«Moltissimo. Questa è una provincia molto operosa, il contagio ha spazzato via in poche settimane generazioni di lavoro. Se riuscissimo a ripartire prima di settembre, davvero sarebbe un buon risultato. Ma perché torni tutto come prima ci vorranno forse dieci anni».
Claudia Guasco
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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