«Il voto di domenica non riguarda la sopravvivenza del governo», ha ripetuto

Sabato 25 Gennaio 2020
«Il voto di domenica non riguarda la sopravvivenza del governo», ha ripetuto ieri seccamente Giuseppe Conte. Probabilmente ha ragione, ma l'archivio della politica italiana trasmette segnali poco rassicuranti. Alla vigilia delle elezioni regionali del 16 aprile 2000, il presidente del Consiglio era Massimo D'Alema. «Sono un professionista disse col tono che conosciamo e vi dico che vinceremo in 10 e forse 11 regioni su 15». Vinse il centrodestra 8 a 7, compreso l'imprendibile Lazio, guidato da Francesco Storace al quale il perfino Berlusconi aveva imposto una drastica cura dimagrante. D'Alema tentò di resistere, ma da Mastella in su l'alleanza si squagliò e lui fu costretto a dimettersi. Il 17 febbraio 2009 Walter Veltroni, fresco segretario del Pd, perse la Sardegna, su cui aveva puntato tutto e si dimise. «L'ho fatto per salvare il partito mi disse -. Per colpire me, avrebbero ammazzato il Pd». Il suo amico D'Alema aveva scelto Pierluigi Bersani. Lui riprese a scrivere libri in attesa di tempi migliori.Oggi la situazione è diversa, ma occorre considerare che negli ultimi due anni il centrodestra ha tolto al centrosinistra otto regioni su otto. La Calabria potrebbe essere la nona e se si aggiungesse l'Emilia Romagna sarebbe difficile far finta di niente. Per il Pd sarebbe un colpo tremendo. L'Emilia è la coperta di Linus, la cassaforte di famiglia, rossa dalla caduta del Duce in poi. Ma nel mondo in cui viviamo, dicono i sociologi, non basta più star bene. C'è voglia di sicurezza, di protezione, di tasse più leggere... Eppure, dopo la scissione di Renzi, che senso avrebbe far cadere Zingaretti? Il segretario ha rivitalizzato il partito e soprattutto gli ha dato una prospettiva di sinistra contando sull'alleanza con Conte e con l'ala governativa dei 5 Stelle guidata dal ministro Patuanelli. Lo spicchio di elettorato più moderato è ormai conteso da Renzi e Calenda che finiranno per unirsi, forse anche con la Bonino. Al Pd (o come si chiamerà) resterà il ruolo di grande partito socialista con venature di sinistra più accese di quelle di un Blair e di un Clinton, senza arrivare all'isterismo ideologico di un Corbyn o di una Warren. Il governo può contare sul disperato desiderio di auto conservazione dei deputati e senatori di ogni colore. Non a caso avrebbe deciso di anticipare ad aprile il referendum confermativo del drastico taglio dei parlamentari (da 945 a 600) per evitare che si voti con l'attuale composizione delle Camere. Salvini avrebbe dunque meno di tre mesi per dare la spallata all'esecutivo prima che il terrore dei sediari si propaghi. A meno che incamerate le 400 nomine nelle società partecipate in programma entro maggio il governo non ceda di schianto. Ma questa, per ora, è fantapolitica. Le variabili sono due: Di Maio e Renzi. Il primo non ha nessuna intenzione di ritirarsi e meno che mai di alimentare l'alleanza tra Zingaretti e Conte, che accusa di averlo tradito. Non ha mai accettato fino in fondo l'alleanza col Pd e vorrebbe guidare la componente moderata del Movimento. Lui, come Renzi, avrebbe interesse a votare con un parlamento di 945 seggi. Ma avrà voglia di staccare la spina? E Mattarella scioglierebbe le Camere alla vigilia di un referendum? Certo, se il centrosinistra vincesse in Emilia Romagna tutta la maggioranza respirerebbe a polmoni pieni. Salvini è convinto di farcela lui. Così prima di lunedì all'alba ogni previsione è priva di senso.
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