IL VIAGGIO
dalla nostra inviata
TREBASELEGHE (PADOVA) I capannoni e i campi

Mercoledì 28 Luglio 2021
IL VIAGGIO
dalla nostra inviata
TREBASELEGHE (PADOVA) I capannoni e i campi di mais, la chiesa e le villette con il giardino. Stava di casa qui il caporalato, i muri bianchi e le persiane chiare, le tendine alle finestre e il terrazzo tutto intorno, un pezzo di anonimato nella campagna di Trebaseleghe. Al civico 6 di via Bigolo gli aguzzini vivevano insieme alle vittime, in una commistione di stanze condivise e cellulari sequestrati, bancomat estorti e soldi rubati, tutti ignari degli occhi elettronici e dei dispositivi satellitari con cui i carabinieri intanto registravano e cronometravano le loro uscite e le loro entrate, fino a misurarne lo sfruttamento.
I PATHAN
Quello di Zafar era pari a 225 ore al mese. «Assunto con contratto di lavoro part-time di 20 ore settimanali articolate in 4 ore al giorno, è uno di quelli per cui i militari hanno anche monitorato gli spostamenti avvalendosi di telecamere e gps», specifica il giudice per le indagini preliminari Domenica Gambardella, nell'ordinanza emessa su richiesta del pubblico ministero Andrea Girlando. Ma questo pathan, ragazzo pakistano di basso ceto sociale ingaggiato dalla Bm Service e fornito alla Grafica Veneta, in un mese arrivava a lavorarne 309, a fronte delle 84 denunciate e comprensive della quota suppletiva. «Il dato che si ricava dal prospetto è semplicemente allarmante», scrive il gip. Lo dicono le timbrature del badge, nello stabilimento laggiù in fondo su cui sventola il leone di San Marco, colosso della stamperia e orgoglio del paese. Lo confermano i filmati e le mappe, che mostrano i viaggi su e giù per lo stradone. Il 22 giugno 11 ore e 57 minuti, il 23 giugno 12 ore e 48 minuti, il 24 giugno 13 ore e 15 minuti... «Lo scarto di qualche minuto è dovuto al tempo necessario per percorrere i circa 4 km di distanza a bordo del Fiat Ducato», annota il magistrato. «Talvolta aggiunge però alcuni di loro facevano rientro a piedi. Come emerge dalle conversazioni captate si trattava di una forma di punizione». E a Zafar toccava spesso. Per esempio: «Partiva alle 5.46. Rientrava, a piedi, alle 18.40 (per un totale di 12 ore e 54 minuti)».
IL PESTAGGIO
Peggio ancora è andata a Nalain e agli altri, rientrati nel casolare dopo essere andati al sindacato, nel pomeriggio del 25 maggio. «Lui e gli altri venivano aggrediti, picchiati ed immobilizzati, mani e piedi; dopo qualche ora insieme agli altri compagni venivano caricati, chi su un furgone chi su altre due auto, e condotti in varie località dove venivano abbandonati a se stessi», ricostruisce l'inchiesta. Nell'abitazione era domiciliato anche il padrone più vecchio, Arshad Badar, che nella telefonata a un amico raccontava così il pestaggio dei dipendenti: «Non lavoravano bene loro e non volevano che gli altri lavorassero come si deve... Hanno fatto un casino (ndr. come per intendere che non volevano sottostare alle regole e sovvertivano anche gli altri)... Noi siamo in Europa non in Pakistan... C'erano 8/10 persone, ho parlato con mio figlio e li abbiamo cambiati... Alla fine ho fatto una cosa bella (ndr. lascia intendere che aveva usato la forza) e sono andati via!». Gli chiese l'interlocutore: «Hai sistemato tutto?». Risposta: «Sì... Adesso in Pakistan anche i loro parenti stanno attenti».
LE FAMIGLIE
Le violenze nel Padovano, le minacce in patria. I racconti dei pakistani picchiati sono inquietanti. Muhammad riferisce: «Il giorno 14 gennaio 2021 a casa di mio padre si è presentato Badar accompagnato dal fratello Nasrullah e da altre persone, tra cui il sindaco del villaggio. Riconosce di aver fatto un errore, ma è il momento di risolvere questo problema. Badar ha detto anche di ricordarsi come funziona la nostra tradizione in Pakistan, cioè che capita che le persone vengano ammazzate per poi trovare un accordo e fare pace. Loro dicono che è meglio trovare un accordo subito, prima che si superino tutti i limiti. Loro sono disponibili a pagare i soldi che io avanzo, basta che ritiri la denuncia». Mudassar confida: «La mia famiglia è stata contattata da Badar telefonicamente. Badar ha detto che vuole dire una cosa molto chiara: Noi per qualsiasi conseguenza ci sarà in Italia, che siano multe, carcere, o altre cose, noi ci vendicheremo non qui, ma in Pakistan, con la stessa moneta. È molto meglio che voi pensiate bene e convincete Mudassar a ritirare la denuncia». Hafiz spiega: «Ora la loro pazienza è finita. O io ritiro la denuncia o ci saranno delle conseguenze molto gravi». Shahzaib sottolinea: «Non è preoccupato per le conseguenze della denuncia, è certo che non ci saranno delle ripercussioni per lui, ma Badar vuole evitare il disonore per la sua Cooperativa. Questa è l'unica cosa che gli interessa».
LA DIFFERENZIAZIONE
Osserva il gip Gambardella: «Appare evidente come gli indagati di origine pakistana siano naturalmente inclini alla violenza e abituati a risolvere le questioni con spedizioni punitive, agendo in prima persona, come è accaduto il 25 maggio 2020, senza timore di essere riconosciuti, anzi al preciso scopo di essere riconosciuti per vedere confermata la capacità intimidatoria di cui godono anche attraverso le propaggini in Pakistan. Non è contestata la circostanza aggravante del metodo mafioso ma la capacità intimidatoria del gruppo familiare è forte, traendo vigore anche dalla forte differenziazione di casta, che evidentemente, nelle relazioni interne al gruppo pakistano, assume particolare rilevanza».
Angela Pederiva
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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