«Il primo passo, via le armi da Tripoli Basta con la competizione tra Stati»

Mercoledì 14 Novembre 2018
«Il primo passo, via le armi da Tripoli Basta con la competizione tra Stati»
PALERMO
È il vero vincitore di questa Conferenza, ha ottenuto l'appoggio pieno della comunità internazionale ma anche quello del generale Khalifa Haftar, del presidente Fayez al Serraj e della maggior parte dei protagonisti del processo di stabilizzazione della Libia. Fine politico, l'inviato dell'Onu Ghassan Salamè, svolge da mesi quasi una mediazione porta a porta, convinto come è, che ogni parte anche più piccola della Libia, debba avere la sua voce.
Quale è il prossimo obiettivo della sua road map?
«È quello di consolidare il cessate il fuoco a Tripoli e, se riusciamo, anche in altre città, perché senza sicurezza non possiamo andare avanti. I libici sono veramente stanchi di questa situazione e sono consapevoli del fatto che non esiste una terza via: o va avanti il processo politico o riprenderanno gli scontri».
Il terreno su cui lavorare è sicuro?
«Certo che no. Sappiamo che ci sono in giro milioni di armi, e sono stati diversi gli episodi di terrorismo».
Tredici leader delle milizie sono stati uccisi negli ultimi mesi, la situazione è molto tesa, le elezioni si allontanano. In che modo cercherete di ottenere la pace?
«Abbiamo portato questi dati alle Nazioni Unite. Il numero di civili morti è stato intorno alle 4-5 persone al mese. La Libia non è la Siria, l'Iraq o l'Afganistan. È vero che negli scontri a Tripoli lo scorso settembre hanno perso la vita 130 persone, ma è un'eccezione. E questo ci dà un certo margine di manovra per operare all'interno del paese».
Chi ha in mano le armi dell'arsenale di Gheddafi?
«Ce ne sono moltissime nelle mani delle milizie, ma oltre a quelle di Gheddafi, ne sono arrivate dall'estero. E questi eventi a Tripoli sono anche un modo per convincere la gente a smettere di pensare che siano le milizie a garantire la sicurezza all'interno del paese».
In tanti hanno offerto un aiuto economico e tecnico per formare le forze di polizia, quanto è lungo e difficile il lavoro da fare?
«Vanno formate da zero e motivate. È utopia pensare di cambiare radicalmente in un mese o due la situazione da com'è stata negli ultimi sette anni. Ci vorrà molto tempo. Il ministro degli Interni ha iniziato a fare nuove nomine nei servizi segreti e di sicurezza, incluso un nuovo direttore del Dipartimento, un nuovo direttore di porti e aeroporti e via dicendo».
C'è poi la questione economica e di ridistribuzione delle risorse, quali gli interventi possibili?
«Ci sarà una gara per una revisione contabile delle due banche centrali libiche entro due, tre settimane. Va accertato da dove vengano questi soldi e quanti siano realmente. Il Consiglio di sicurezza ha chiesto alla nostra missione di incontrare i governatori delle due banche e l'incontro è avvenuto il 27 agosto. Qualche giorno fa, poi, ce n'è stato un altro a Tunisi. È stato trovato l'accordo per fare un audit sul bilancio certificato».
Quanto incide la competizione internazionale sulle trattative per la Libia?
«Ho passato buona parte della mia vita insegnando relazioni internazionali, e considero la competizione un fatto abbastanza normale, certe volte anche utile. Ma nel caso della Libia direi che la competizione tra paesi viene usata soprattutto come pretesto per mantenere lo status quo».
In che senso?
«Tutti dicono che facciamo con la Libia? Prima di tutto ci sono gli Emirati Arabi che sono i primi a competere per garantirsi un ruolo nel paese, poi ci sono Marocco e Algeria, Turchia e Egitto, Francia e Italia, sono tutti in competizione. Ma questa competizione viene usata come scusa. Se non ci fosse la competizione, troverebbero un altro modo per farlo. E questo non è sano. Quando gli italiani, i francesi o chiunque altro, alza la voce, è per trovare una giustificazione al fatto che non si facciano progressi. Ma italiani e francesi sono migliori amici tra loro, per cui, se risolvono questa, troveranno un'altra scusa».
C. Man.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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