Cina e Usa, tregua armata: c'è l'intesa ma i dazi restano

Giovedì 16 Gennaio 2020
IL NEGOZIATO
NEW YORK La fase 1 dell'accordo tra Cina e Usa è stato firmato ieri nella East Wing della Casa Bianca da Donald Trump e dal capo della delegazione inviata da Pechino: Liu Hue. Due anni di contenzioso a colpi di dazi e di porte sbattute in faccia, hanno consegnato a Trump un altro gioiello nella corona di accordi bilaterali da esibire nel suo portfolio di isolazionista, che privilegia le intese bilaterali al posto di quelle di grande partecipazione.
Il prezzo che l'amministrazione Usa ha dovuto pagare è però evidente nella superficialità dei termini contenuti nel testo concordato, e dai tanti rinvii che sono stati necessari per arrivarci. Il punto centrale concesso dai cinesi sono 200 miliardi di dollari in nuovi acquisti di «made in Usa» che Pechino si dichiara disposta a concludere nei prossimi due anni. La cifra delle migliori annate pre-guerra della spesa per le importazioni cinesi dagli Usa era di 130 miliardi, quindi il risultato è sorprendete, al punto di sfiorare l'incredulità. I soli acquisti nel campo agro alimentare dovrebbero passare dagli attuali 24 a 32 miliardi, mentre quelli per energia e beni di consumo dovrebbe crescere di 75 miliardi. Le due parti si sono rifiutate di fornire il dettaglio delle nuove cifre che dovrebbero alleggerire, se non proprio azzerare, il deficit di bilancio commerciale di 350 miliardi di dollari al momento accusato dagli Usa. Il testo comprende la rinuncia da parte di Pechino di usare la svalutazione dello yuan in funzione competitiva, e l'apertura delle strutture finanziarie del paese al capitale statunitense.
PATTO PRECARIO
La conferma della precarietà del patto è il fatto che gran parte dei dazi restano in vigore. Gli Usa annullano la tranche di imposte su 156 miliardi di importazioni che avrebbero dovuto entrare in vigore il 15 di dicembre, e dimezzano (dal 15 al 7,5%) l'importo su quelle adottate il primo di settembre dell'anno scorso su 120 miliardi di valore. Permane invece un dazio del 25% su 300 miliardi di dollari in merci cinesi che erano state tassate in precedenza dall'amministrazione Trump. Pechino non disponeva di un cuscinetto altrettanto ampio, e si è quindi arroccata a difesa delle imposte su 110 miliardi di dollari in merci in arrivo dagli Usa, la quasi totalità del contributo statunitense all'interscambio.
Trump può comunque presentarsi al suo elettorato nella doppia veste del negoziatore che ha raggiunto un risultato ritenuto impossibile, e del mastino che resta seduto su una montagna di dazi da usare in caso di bisogno. E il bisogno potrebbe presentarsi presto, visto che l'accordo evita la mediazione giudiziale del Wto per costituire un regime di consultazioni a due in caso di discordia. Sono previste fino a tre sessioni negoziali con un limite temporale di 90 giorni, oltre il quale, se il dissenso permane, si torna alle ostilità.
LE QUESTIONI APERTE
Mancano invece disposizioni risolutive per le vere questioni nodali, come il diritto alla proprietà intellettuale, e per la disciplina degli incentivi di stato con i quali la Cina avvantaggia le proprie aziende. Questa materia alla quale l'accordo fa solo passeggeri riferimenti, sarà oggetto della «Fase 2», che Trump ha detto di volere iniziare a discutere fin dal summit di Davos la prossima settimana. La sua fiducia non è però condivisa da molti: pochi minuti dopo la firma l'ex direttore del Wall Street Journal Gerard Baker commentava già che la seconda fase non ci sarà mai, e che la Cina ha pagato con questo accordo il diritto di perpetuare le pratiche abusive delle sue aziende.
Questo vuoto negoziale rilancia le speranze del commissario europeo per il Commercio Phil Hogan, anche lui a Washington per tre giorni di incontri che si concludono oggi, di presentare la Ue come un alleato degli Usa nella lotta per irreggimentare le pratiche commerciali scorrette di Pechino, in cambio di una tregua sui dazi vigenti e quelli minacciati da Trump per il futuro contro l'Europa.
Flavio Pompetti
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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