LA POLEMICA
ROMA Uno shutdown in piena regola. Quando ormai l'insurrezione di Capitol Hill stava lentamente spegnendosi nel buio della sera, mercoledì Donald Trump è rimasto senza megafono. Le piattaforme social Twitter e Facebook hanno infatti deciso di bloccare gli account dell'attuale presidente degli Stati Uniti d'America almeno fino al 20 gennaio, e cioè fino al completamento dell'intera fase della transizione. Hanno cioè inibito al tycoon la possibilità di raggiungere più di 120 milioni di follower (88 su Twitter e 35 Facebook), nel timore che i suoi messaggi incitassero ancora alla violenza dopo aver trasformato il Congresso a stelle e strisce in un bivacco di manipoli. Ha usato i suoi account «per condonare piuttosto che condannare le azioni dei suoi sostenitori» ha scritto ieri Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook, spiegando la sua scelta. Una mossa condivisibile quanto tardiva secondo una grossa fetta dei commentatori internazionali che però è anche inevitabilmente destinata a far discutere. Possono delle aziende private limitare la libertà di espressione di qualcuno? O meglio, è giusto che lo facciano in maniera arbitraria appellandosi a delle regole d'uso da loro stabilite?
I DUBBI
Quesiti in realtà per niente inediti, davanti ai quali però fino ad oggi si è preferito tenere gli occhi chiusi. I vari profili Potus (acronimo con cui sui social è identificato l'account ufficiale dei presidenti americani), negli anni della presidenza Trump, sono stati spesso veicolo di messaggi che violavano le policy delle piattaforme.
Eppure mai si era arrivati a tanto. Anzi, Twitter e Facebook hanno anche riscritto le proprie regole con l'intento preciso allargare le maglie della rete entro cui il tycoon avrebbe dovuto muoversi. Tant'è che l'uso e l'abuso dei social network da parte di the Donald hanno senza dubbio avuto un ruolo enorme prima per la sua elezione e poi nel corso del mandato. Solo per citare alcuni casi Trump ha usato il megafono della rete per minacciare la guerra nucleare, attaccare i cittadini della middle-class americana o i manifestanti di Black Lives Matter, rilanciare teorie del complotto come il birterismo (la cospirazione sulla cittadinanza prima di Barack Obama e poi di Kamala Harris) e fare la sponda ad altre, alimentando i vari movimenti sovversivi scesi in piazza il 6 gennaio come i QAnon, i Boogaloo o i Proud Boys. A richieste precise da parte della stampa americana, Twitter nel 2017 ha ad esempio risposto di «non avere l'obbligo di comportarsi come un attore neutrale». Ma forse, a 3 anni di distanza, con molta più esperienza sui server e con policy che quantomeno hanno iniziato a difendere gli utenti bannando sempre più spesso gli estremisti (ma non i loro leader), è ora di riaprire il dibattito.
LE ALTERNATIVE
Non solo, bisognerebbe anche farlo in fretta, perché il web è terreno molto fertile per piattaforme verticali che possono trasformarsi in pericolose camere dell'eco. È il caso di 8chan e 4chan, community che da anni ospitano le teorie suprematiste dell'AltRight di mezzo mondo. Ma è anche il caso della piattaforma di messaggistica russa Telegram o, ora più che mai, di Parler. Vale a dire l'app di messaggistica nata in Usa nel 2018 proprio per offrire un luogo in cui incontrarsi ai cospirazioniti bannati da Facebook e Twitter. Queste piattaforme non sono luoghi sicuri. È ora che quantomeno se ne parli in questi termini.
Francesco Malfetano
© RIPRODUZIONE RISERVATA
© RIPRODUZIONE RISERVATA ROMA Uno shutdown in piena regola. Quando ormai l'insurrezione di Capitol Hill stava lentamente spegnendosi nel buio della sera, mercoledì Donald Trump è rimasto senza megafono. Le piattaforme social Twitter e Facebook hanno infatti deciso di bloccare gli account dell'attuale presidente degli Stati Uniti d'America almeno fino al 20 gennaio, e cioè fino al completamento dell'intera fase della transizione. Hanno cioè inibito al tycoon la possibilità di raggiungere più di 120 milioni di follower (88 su Twitter e 35 Facebook), nel timore che i suoi messaggi incitassero ancora alla violenza dopo aver trasformato il Congresso a stelle e strisce in un bivacco di manipoli. Ha usato i suoi account «per condonare piuttosto che condannare le azioni dei suoi sostenitori» ha scritto ieri Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook, spiegando la sua scelta. Una mossa condivisibile quanto tardiva secondo una grossa fetta dei commentatori internazionali che però è anche inevitabilmente destinata a far discutere. Possono delle aziende private limitare la libertà di espressione di qualcuno? O meglio, è giusto che lo facciano in maniera arbitraria appellandosi a delle regole d'uso da loro stabilite?
I DUBBI
Quesiti in realtà per niente inediti, davanti ai quali però fino ad oggi si è preferito tenere gli occhi chiusi. I vari profili Potus (acronimo con cui sui social è identificato l'account ufficiale dei presidenti americani), negli anni della presidenza Trump, sono stati spesso veicolo di messaggi che violavano le policy delle piattaforme.
Eppure mai si era arrivati a tanto. Anzi, Twitter e Facebook hanno anche riscritto le proprie regole con l'intento preciso allargare le maglie della rete entro cui il tycoon avrebbe dovuto muoversi. Tant'è che l'uso e l'abuso dei social network da parte di the Donald hanno senza dubbio avuto un ruolo enorme prima per la sua elezione e poi nel corso del mandato. Solo per citare alcuni casi Trump ha usato il megafono della rete per minacciare la guerra nucleare, attaccare i cittadini della middle-class americana o i manifestanti di Black Lives Matter, rilanciare teorie del complotto come il birterismo (la cospirazione sulla cittadinanza prima di Barack Obama e poi di Kamala Harris) e fare la sponda ad altre, alimentando i vari movimenti sovversivi scesi in piazza il 6 gennaio come i QAnon, i Boogaloo o i Proud Boys. A richieste precise da parte della stampa americana, Twitter nel 2017 ha ad esempio risposto di «non avere l'obbligo di comportarsi come un attore neutrale». Ma forse, a 3 anni di distanza, con molta più esperienza sui server e con policy che quantomeno hanno iniziato a difendere gli utenti bannando sempre più spesso gli estremisti (ma non i loro leader), è ora di riaprire il dibattito.
LE ALTERNATIVE
Non solo, bisognerebbe anche farlo in fretta, perché il web è terreno molto fertile per piattaforme verticali che possono trasformarsi in pericolose camere dell'eco. È il caso di 8chan e 4chan, community che da anni ospitano le teorie suprematiste dell'AltRight di mezzo mondo. Ma è anche il caso della piattaforma di messaggistica russa Telegram o, ora più che mai, di Parler. Vale a dire l'app di messaggistica nata in Usa nel 2018 proprio per offrire un luogo in cui incontrarsi ai cospirazioniti bannati da Facebook e Twitter. Queste piattaforme non sono luoghi sicuri. È ora che quantomeno se ne parli in questi termini.
Francesco Malfetano
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