Elisa, a 41 anni è lei l'erede dell'azienda fondata 70 anni fa dal nonno con un milione e mezzo di fatturato

Lunedì 28 Dicembre 2020 di Edoardo Pittalis
Elisa, a 41 anni è lei l'erede dell'azienda fondata 70 anni fa dal nonno con un milione e mezzo di fatturato
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Elisa Facchinello è l'erede di una famiglia di costruttori edili che fondò la propria azienda proprio settant'anni fa. La Paolin srl di Bassano del Grappa con un milione e mezzo di euro di fatturato è all'avanguardia in Italia e all'estero.

Di mestiere fa l'imprenditrice edile, cosa inusuale per una donna. Elisa Facchinello, 41 anni, di Bassano del Grappa smentisce il detto veneto el muraro xe omo.

Il sogno è quello di raccontare in un libro la storia della sua azienda e della sua famiglia, a incominciare da nonno Romano che lasciò il seminario per amore, proprio quando stava per prendere i voti. Un nonno che ha fondato l'impresa e che per tutta la vita ha declamato ai nipoti poesie in latino. 


«La mia prospettiva è cambiata otto anni fa, quando mia madre ha avuto un'emorragia cerebrale. Sono diventata un po' la sua mamma, l'ho seguita come si fa con una bambina, si sono ribaltati i ruoli. È stata la svolta: non ci sono stati più i numeri come prima esigenza, ma la salute. È un po' quello che ci si sta proponendo questo drammatico presente. I numeri riesci a farli quadrare, la vita è molto più complicata. Ci vuole equilibrio nel mettere insieme il sentimento con la ragione.


La Paolin srl di Bassano del Grappa, costruzioni, un milione e mezzo di euro di fatturato, ha quasi settant'anni di storia. Tre soci: Elisa, il fratello Antonio e mamma Rita Paolin.


Quando è nata l'azienda?
«Era il 1952 quando nonno Romano, che era figlio e nipote di muratori di Nove, l'ha fondata. Lui aveva studiato dagli Scalabrini, doveva farsi sacerdote, ma ha conosciuto nonna Pina e ha capito che il sacerdozio non era la sua vera vocazione. Ha lasciato il seminario e si è chiesto che cosa avrebbe potuto fare per mettere su famiglia. Dopo aver lavorato nei forni della ceramica a Nove, ha preso in mano l'attività del padre trasformandola in ditta. Il suo sogno era comprare una gru e c'è riuscito; aveva i migliori clienti della zona, come la famiglia Nardini».


Che tipo era nonno Romano?
«Aveva due personalità: era generoso e accorto al tempo stesso. Andava in ufficio con le brioches per i dipendenti, ma sul lavoro era esigentissimo, comandava lui. Non è stato facile per me lavorare assieme, ero molto giovane, ero una donna con le mie idee. Lui era il nonno col quale avevo giocato, ma era anche el paron, era il titolare e io una dipendente. Mio fratello ha avuto una strada più facile, fin dalle medie il nonno lo veniva a prendere e lo portava in cantiere, voleva sostituire il figlio architetto che aveva preferito tenersi lontano dall'azienda. Con lui la domenica era sacrosanta, era religioso, per la festa della Madonna di Monte Berico chiudeva. Dopo il pranzo, con la famiglia al completo, era il momento della partita a carte, Scopa e la Vecia che è il fante di spade e chi resta con quello perde. Poi mi ha insegnato a giocare a scacchi, voleva vincere a ogni costo. Ci recitava poesie in latino e anche qualcosa in greco, inseriva frasi latine nei discorsi, leggeva tanto, non iniziava la giornata senza il quotidiano». 


Che bambina era Elisa?
«Una ragazzina timida e senza un obiettivo. Siamo tre fratelli, io sono la più grande; mio padre non è mai entrato in azienda. Abitavamo a fianco del nonno, giocavamo tanto all'aperto, la nonna ci lasciava liberi, potevamo toccare tutto. Ero una discola, camminavo scalza anche d'inverno e la mamma gridava Ocio che te ciapi de tuto. Ma non sapevo cosa avrei fatto da grande, dopo il liceo linguistico mi sono iscritta a Padova in lingue, ma ho capito che non era la mia strada. Ha deciso la mamma per me: mi hanno assunta dal nonno come impiegata. Ho iniziato come apprendista, ho seguito i corsi di Confindustria per specializzarmi. E lì si è aperto un mondo e ho cambiato prospettiva, l'impresa ha incominciato a piacermi. Non avevo le basi tecniche dell'amministrazione e mi sono iscritta ai corsi serali di Economia aziendale e anche lì ho scoperto un altro mondo, stavo sui libri fino alle tre di notte, ero circondata da colleghi che facevano di tutto per mettersi al passo. Piano piano mi sono fatta strada all'interno dell'azienda e nel 2004 ho preso il posto del ragioniere capo che andava in pensione: da allora mi sono ritrovata sulle spalle l'amministrazione dell'azienda».


A quel punto come è andata col nonno?
«Ho incominciato a scontrarmi: lui vedeva solo il cantiere e tutto il resto veniva dopo. Ma a furia di battere il chiodo è arrivato il momento in cui mi ha dato le chiavi dell'azienda. Negli anni Ottanta aveva avuto un centinaio di dipendenti, poi è arrivata la crisi economica e ha dovuto ridimensionare. Per non lasciare nessuno a casa costruiva a spese sue e si era trovato in difficoltà. Però godeva di buona reputazione e col sostegno e la fiducia dei fornitori e anche delle banche ha avuto nuovi lavori. È morto nel 2016, a 86 anni, aveva da poco anche perso la moglie. Fino all'ultimo voleva imparare tutto del computer. Era rimasto contrario al noleggio delle attrezzature e faceva fatica anche ad accettare il subappalto: arrivava da un mondo in cui si faceva tutto dall'a alla zeta, anche il ferro si faceva in casa».


Voi siete la terza generazione, che cosa è cambiato?
«Quando il nonno ha incominciato a invecchiare, noi eravamo già inseriti nel lavoro. Siamo subentrati quasi per necessità, con visioni diverse, non è stato così semplice, abbiamo dovuto subito affrontare la grande crisi dell'edilizia del 2007. Soltanto quest'anno ne siamo usciti, per la prima volta potevamo sollevare la testa, la pandemia non ha aiutato. Molti lavori ci hanno dato soddisfazione, penso alle bolle della distilleria Nardini, progettate da Fuksas e seguite da dieci ingegneri venuti da Tokyo. È stata per noi una straordinaria prova tecnica realizzare l'auditorium per i convegni, l'idea era quella dell'alambicco; si doveva fare nascosto, sotterraneo, cemento a vista. Un altro lavoro eccezionale è stato a Bassano il restauro della Villa Ca' Erizzo, il proprietario Alberto Renato Luca era stato un grande cacciatore in Africa, tra le sue prede c'era un elefante. è stato necessario scoperchiare il tetto per farci entrare l'elefante. Nella villa aveva soggiornato Hemingway dopo essere stato ferito nella Grande Guerra, in Addio alle armi c'è la descrizione».


È stato difficile per una donna dirigere l'azienda? 
«Tosta, ho dovuto crearmi uno spazio e farmi valere. Fare impresa è anche fare esperienza in settori che non sono i tuoi, è una scuola a tutti gli effetti. Ho portato altre donne in azienda. Sono arrivata in un settore maschile e anche maschilista, questo non mi ha fermato, non mi sono mai rifiutata di sporcarmi le mani. Con mio fratello, dopo gli scontri iniziali, siamo diventati complementari».


Come vede il futuro del settore dell'edilizia?
«C'è fermento, ci sono bei progetti in pentola, però c'è anche incertezza. La gente ha riacquistato un po' di fiducia e comincia a reinvestire nelle casa, nella ristrutturazione, grazie anche ai superbonus. Forse la gente ha anche acquisito maggiore consapevolezza: è un po' anche la nostra filosofia, costruire meno ma meglio, sostenibile. Ci siamo appena trasformati in società-benefit: perseguire il profitto, l'utile, ma in maniera etica e responsabile. Non solo persone, anche materiali e comunità e territorio». 


E il sogno del romanzo? 
«Mi piace scrivere, frequentare corsi per imparare a raccontare storie. Si è spalancata una porticina che era nascosta e ho ripreso un mio spazio, abbino alla routine del quotidiano la parte emotiva. Mi piacerebbe scrivere la storia del nonno e della nostra azienda e anche quello che ho vissuto nelle stanze dell'azienda. La scrittura ti dà la capacità di mettere il colore sulle cose, il colore delle emozioni».
 

Ultimo aggiornamento: 13:07 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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