Il business del Mercatino dell'usato, 190 negozi in tutta Italia: «Quella volte che ci sfuggì un Picasso»

Lunedì 23 Maggio 2022 di Edoardo Pittalis
Ettore Sole e l'interno di un Mercatino

VERONA - «Le nostre case sono un giacimento, in media contengono almeno duemila euro di oggetti che non utilizziamo più. La Doxa ha calcolato 24 miliardi di oggetti che non usiamo. È un'industria, noi rimettiamo in moto decine e decine di milioni di euro di cose che non esistevano. Noi vendiamo tutto quello che c'è in una casa, dalle scarpe ai mobili. Non abbiamo mai avuto un calo in trent'anni di attività. La nostra è una fabbrica che funziona quando c'è abbondanza e quando c'è crisi».
Ettore Sole, 72 anni, veronese ha creato la società Mercatino, una holding con quattro soci che fattura 90 milioni di euro. «Siamo leader europei del settore». 190 negozi in tutta Italia, uno appena aperto a Ibiza, testa di ponte per l'espansione europea.

Più 86 punti vendita di usato firmato, esclusivamente alta moda. Con quelli in franchising i negozi solo nel Triveneto sono una cinquantina, la sede principale a Verona. Ci lavorano più di duemila persone. «Il 90% del nostro fatturato sono le cose normali, il dieci le cose di grande valore», spiega Sebastiano Marinaccio, 59 anni, nato in Svizzera, presidente della società. A far nascere l'impresa trent'anni fa è stato Ettore Sole: si era stancato di una vita da operaio della Sip, voleva cambiare, si è inventato il mercatino dell'usato, in pochi anni ha invaso prima il Veneto, poi l'Italia.


Come è nata l'idea del Mercatino?
«La mia era una famiglia di operai, papà Gavino faceva la guardia giurata dagli americani nella Base di Verona. Era stato carabiniere, ma aveva dovuto licenziarsi dall'Arma perché si era sposato prima dell'età allora prescritta. Siamo due fratelli, le gite erano in biciclette, noi bambini sulla canna. Eravamo anche fortunati, a casa la televisione è entrata molto presto e la prima auto di papà, nel 1962, era una 600 comprata a rate. Ho incominciato a lavorare come operaio alla Sip e nello stesso anno mi sono sposato con Roberta. La Sip era il posto sicuro, le ferie pagate, ma era un lavoro nel quale non mi ritrovavo, sono stati undici anni di sofferenza, fino a quando non ho deciso di fare qualcosa di mio. Mi sono messo alla prova come concessionario di una ditta di contenitori in plastica per gli alimenti, ma mi sono riempito di debiti: ero convinto di essere bravo, invece non lo ero. Mi sono ritrovato disoccupato con tre figli. Un amico che aveva avuto successo mi ha regalato 10 milioni di lire, sapeva che sognavo di aprire un mercatino. Ho aperto a Verona quello che è stato il prototipo dei tanti venuti dopo. L'inizio è stato difficile, mi ha dato una mano un amico che aveva un mobilificio e disponeva dei mobili usati: in tre giorni li ho venduti tutti. Era partita la bestia, dopo un anno ho cambiato magazzino, dopo due anni ne ho aperto uno da tremila metri quadrati. A quel punto è decollato il franchising, non sapevo bene nemmeno pronunciare la parola. Ho fatto il primo annuncio sulla rivista Millionaire e sono arrivate 1600 richieste, da quel giorno è stata una salita continua. Il primo punto vendita in franchising è stato aperto a Padova, con Barbara, in via Galanti e c'è sempre».


Come sono stati gli inizi e come è cambiato il mercato?
«Quando ho aperto vendevamo quasi per metà mobili, oggi la clientela si è spostata sull'abbigliamento. All'inizio venivano gli extracomunitari a comprare mobili usati; dopo otto anni, in media, cambiavano i mobili e rivendevano i vecchi a chi era appena arrivato. Mi sono accorto col tempo che facciamo da contenitori per famiglie: quando due coniugi si separano i mobili sono ancora nuovi, ma pur di disfarsene portano l'arredamento completo da vendere. La cosa curiosa è che spesso uno dei due viene a ricomprarli, è talmente legato a quella vita che ha vissuto che non vuole separarsi dalle sue cose. Talvolta succede che chi ha comprato tutto si rimetta assieme, così si ritrovano in una casa diversa ma con gli stessi oggetti. Abbiamo mobili di ogni epoca, 230 mila metri quadrati di esposizione in giro, vengono da noi le case di produzione cinematografiche e televisive per prendere quegli oggetti particolari che non trovano più per i film. Poi ho cercato altri soci: praticamente siamo tre fratelli, mai una discussione in vent'anni, i consigli d'amministrazione fatti al telefono o al bar. Proiettati al futuro ma con un rispetto antico della persona. Ora in società sono entrati i due figli del socio che è mancato. Il successo dell'azienda è fatto da noi e da mia moglie che è sempre stata parte attiva della società».


L'affare più grande realizzato?
«Quello che mi sono lasciato sfuggire. Agli inizi mi arriva da una soffitta, dove stavano rifacendo l'intonaco, una scatola di legno con dentro un biplano con sopra scritto Picasso. Mi dicono con l'aria di chi ti sta prendendo in giro: Ti ho portato un Picasso. Era un giocattolo in legno, bello, un aereo, l'ho messo in vendita a 70 mila lire, una bella cifra per un vecchio gioco. La scatola passava di tavolo in tavolo, sembrava non interessasse nessuno, mi ero anche dimenticato di averlo. Una sera sulla segreteria telefonica trovo un messaggio: Volevo ringraziarvi perché ho comprato un oggetto da voi e l'ho venduto per 140 milioni di lire. Abbiamo pensato a uno scherzo, poi ci siamo chiesti di cosa si trattasse, c'era il registro dove veniva annotato ogni oggetto venduto. È stato un commerciante al quale avevo proposto l'aeroplanino, ad avere l'illuminazione: Non sarà mica stato un Picasso?. Sì perché Picasso faceva i giocattoli per i figli, creava oggetti di ogni tipo e li firmava. Chissà come quell'aeroplanino era finito in quella soffitta? Cosa mi sarebbe costato credere che fosse vero? Non ho nemmeno dato retta a mio figlio che avrebbe voluto che lo tenessi perché gli piaceva. È rimasta una ferita aperta. I miei trasportatori un giorno hanno trovato un biplano di legno e me l'hanno regalato. Non l'ho presa bene. Ma io non avevo esperienza, non ero preparato, ho imparato strada facendo, ho chiesto tutto a tutti per imparare meglio».


Quali sono gli oggetti più richiesti?
«Quasi la metà abbigliamento, dalle scarpe ai vestiti e agli accessori di moda. Poi il lusso, il brand dell'usato firmato, solo le grandi marche della moda internazionale. Vendiamo agli americani, ai giapponesi perché il made in Italy è talmente riconosciuto che abbiamo un boom delle vendite. Le borse di Vuitton e di Hermes, gli occhiali introvabili di Dolce&Gabbana e quelli di Lapo Elkann e di Gucci. Borse, occhiali, cinture, scarpe sono gli articoli più richiesti. L'oggetto deve essere perfetto, funzionante, originale, forniamo anche la certificazione. I nostri punti vendita sono punti di aggregazione, abbiamo 3 milioni e mezzo di libri, praticamente siamo di fatto la più grande libreria, naturalmente di volumi usati Un nostro cliente si ferma in media 42 minuti all'interno. Collezionismo, libri antichi, penne, orologi, monete, francobolli. Flipper e juke-box sono ormai rari, come i vecchi frigoriferi della Coca-Cola. Un oggetto in forte crescita sono i dischi in vinile. Poi le bottiglie di vino e di whisky: non si comprano per bere, ma per conservare. Vanno tantissimo anche libri e fumetti d'annata, la gente fa centinaia di chilometri per trovare quello che cerca Il mercato è cambiato completamente, se penso a ieri dico: la radio d'epoca, la camera da letto, la cucina. Ma oggi le radio e i grammofoni te li regalano e nessuno cerca più la credenza della nonna. Stiamo anche attenti alla sostenibilità: siamo stati i primi a fare sperimentazione scientifica con le università di Padova e di Pisa sull'impronta ambientale degli oggetti usati».
 

Ultimo aggiornamento: 24 Maggio, 10:46 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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