Elefanti a Venezia, una storia secolare. Uno, imbizzarrito, fu ucciso in chiesa a cannonate

Giovedì 11 Aprile 2019 di Alessandro Marzo Magno
Elefanti a Venezia, una storia secolare. Uno, imbizzarrito, fu ucciso in chiesa a cannonate
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Sembra che Venezia abbia poco a che fare con gli elefanti, eppure anche in questo campo non mancano le sorprese. Nel passato alcuni bestioni sono approdati tra calli e campielli, e in un'occasione, esattamente duecento anni fa, con conseguenze piuttosto devastanti. Il Carnevale era il periodo delle follie e delle stranezze e quindi anche degli animali inusuali: nel 1774 il pittore Pietro Longhi immortala un elefante incatenato, esposto tra le bancarelle di riva degli Schiavoni, alcuni personaggi lo ammirano un po' stralunati. Il pachiderma si chiamava Condolio e il quadro, che era stato commissionato dalla gentildonna Marina Sagredo Pisani, oggi è esposto a Vicenza, nelle Gallerie d'Italia di palazzo Leoni Montanari. Oltre vent'anni prima, per la precisione del 1751, sempre Pietro Longhi aveva raffigurato un altro animale esotico giunto a Venezia, il quadro Il rinoceronte si trova a Ca' Rezzonico.
 

 

 
IL CORTEO
Passano 180 anni ed è il circo Togni a portare a Venezia alcuni elefanti che sfilano per la città. Siamo nel 1954 e il tendone viene innalzato in campo San Giacomo dell'Orio. Il treno del circo arriva in stazione, con i pachidermi che sporgono le proboscidi dai vagoni. Il domatore Ugo Miletti, però, vuole sorprendere Venezia e organizza una parata degli elefanti che oltrepassano il ponte degli Scalzi e se ne vanno a spasso per le calli. Filmati d'epoca e le immagini dell'agenzia Cameraphoto esposte un paio d'anni fa al Candiani di Mestre ci restituiscono quella passeggiata fuori dall'usuale.
L'ELEFANTICIDIO
Ben più movimentata, e tragica, la vicenda dell'elefanticidio del marzo 1819. Nei casotti di riva degli Schiavoni si trovava un bellissimo elefante indiano, docile e mansueto, che era appartenuto al re Federico I del Wurttenberg. Quando questi era morto, tre anni prima, l'animale era stato venduto a uno svedese, tal Klaus Garner, che evidentemente lo esponeva in giro per l'Europa. Il Carnevale di quell'anno era finito martedì 23 febbraio, ma i casotti erano rimasti perché stava arrivando in visita l'imperatore Francesco I d'Austria: al tempo Venezia faceva parte della monarchia asburgica. Scrivono le cronache che «l'elefante era docilissimo, e intelligentissimo, perciò obbediva con tutta la prontezza agli ordini del suo custode, come farebbe un fanciullo». Non si erano fatti i conti, però, con il protocollo delle visite del monarca che prevedevano salve di artiglierie dalle navi militari ormeggiate in bacino di San Marco. La folla gli rumoreggia intorno, il fragore dei colpi lo innervosisce, il bestione comincia a dare segni d'insofferenza, tanto che le autorità di polizia ingiungono al proprietario di sgomberare l'animale. Viene fatto arrivare un grande barcone, viene allestito un pontile tra la riva e l'imbarcazione, ma l'elefante non ne vuole sapere di salirci. I tentativi vanno avanti per dieci ore, ma tra il pontile che oscilla e le scariche di artiglieria, l'animale si rifiuta. La soluzione sembra arrivare da un ragazzo ventenne di Rovigo. Quando ormai è passata la mezzanotte del 15 marzo, il giovane presenta all'elefante un pezzo di pane e il pachiderma comincia a seguirlo, docile. Poi accade l'irreparabile. Non si sa perché, ovvero se l'animale si stizzisca perché non riesce a mangiare quel pane, se il ragazzo gli avesse fatto qualche angheria nei giorni precedenti e il bestione con la famosa memoria da elefante lo riconosca, se si imbizzarrisca per le cannonate, comunque succede la tragedia: avvinghia con la proboscide il ragazzo, lo solleva in aria, lo sbatte a terra e poi lo calpesta. «Lo attorcigliò attraverso il corpo colla sua proboscide, lo stese a terra, lo calpestò montandolo tutto. Mille grida mandava al cielo l'infelice mezzo franito nell'ossa e nel corpo, cosicché, condotto al luogo di sua abitazione, dopo quattro ore di dolori, confessato, comunicato, e unto coll'olio santo morì» riporta il manoscritto Cicogna, uno dei tanti tesori conservati nella biblioteca del museo Correr. Il poveretto muore e l'elefante fugge.
VIA AL SAFARI
Comincia un safari che durerà ben tre giorni. La polizia austriaca spara, ma i colpi neanche scalfiscono la spessa pelle dell'animale. «Accorsi alcuni soldati col loro capitano, pensaron di scaricare addosso alla gran bestia parecchie fucilate, le quali già non furono di alcuno effetto buono, anzi fecer peggio, perché la bestia fu più cruda di prima», osserva ancora il codice Cicogna. L'animale fracassa tutto quello che incontra lungo il suo cammino. Corre verso la Ca di Dio. «Urta in un casotto, e lo rovescia. Un'isolata bottega di legno corre la stessa sorte, ed egli si divora le frutta che quella conteneva. Getta a terra la porta d'una caffetteria, v'entra, e dicesi che bevesse». Gli scaricano addosso una salva di cinquanta fucilate e cade a terra. I soldati lo credono morto, ma mentre gli si avvicinano circospetti, si rialza più furioso che mai, seminando il panico.
CATTURATO IN CHIESA
Va verso Sant'Antonin, ma quando si ritrova di fronte al ponte, esita e non sale la gradinata. Sfonda invece il portone della chiesa e ci entra. A questo punto i soldati chiudono tutte le porte, in modo che l'elefante non riesca più a uscirne. «Fracassa molte panche, e la pila dell'acqua santa; rompe in quattro luoghi il marmoreo pavimento, ed altri molti vi commette guasti. Finalmente spacca il coperchio d'un sepolcro, e in esso cade colle gambe posteriori». A questo punto l'animale è immobilizzato: si apre un buco nella parete della chiesa, viene sistemato un cannone che apre il fuoco e ammazza il pachiderma. «Con funi e con ferri fu tratto dalla sepoltura e a gran stento fu condotto in una peata di faccia la porta suddetta maggiore. Altre quattro ore essendo imbarcato, coperto di stuoie fu condotto al Lido, e colà fu scorticato». La vicenda, però, non finisce qui: Stefano Andrea Renier, direttore del gabinetto di Storia naturale dell'Università di Padova, chiede che gli venga consegnato il corpo.
LA POESIA ANTI ASBURGO
Lo scheletro è tutt'ora esposto nel museo di Scienze naturali padovano, mentre la pelle, che era stata conciata, non si sa che fine abbia fatto. La storia dell'elefanticidio ha dato il via a una tradizione letteraria che continua ai giorni nostri: il regista e scrittore Enrico Ricciardi ha ideato una conferenza-spettacolo che è stata rappresentata all'Orto botanico di Padova e all'Ateneo veneto di Venezia. Al tempo, il poeta satirico Pietro Buratti aveva composto 104 ottave dal titolo L'Elefante. Storia verissima, grondanti di un pesante sarcasmo antiaustriaco che gli costa un mese di prigione. Anche il letterato padovano Piero Bonmartini si cimenta in L'elefanticidio di Venezia che, a scanso di equivoci viene preventivamente vietato, ma circola clandestinamente. Il povero elefante, a sua insaputa, diviene così un simbolo della ribellione contro gli austriaci.
Alessandro Marzo Magno
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Ultimo aggiornamento: 12 Aprile, 12:01 © RIPRODUZIONE RISERVATA
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