Venezia, la città fantasma. Viaggio fra le calli deserte e una piazza San Marco irriconoscibile

Mercoledì 27 Gennaio 2021 di Alda Vanzan
Venezia, la città fantasma. Viaggio fra le calli deserte e una piazza San Marco irriconoscibile
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Dopo l'Aqua Granda del novembre 2019, la pandemia: piazza San Marco deserta, sotto le Procuratie Vecchie resistono solo due negozi, chiusi tutti i bar. L'azienda dei trasporti lamenta perdite per 85 milioni di euro, le categorie chiedono contributi per sopravvivere. E si avvicina l'anniversario della fondazione: dopo 1.600 anni ci si interroga sul futuro.

Venezia deserta


Milleseicento anni fa Venezia nasceva e davanti a sé aveva un orizzonte di successi: la Repubblica, la marineria, l'espansione a Est, soprattutto la costruzione di una città che nessuno avrebbe mai immaginato con quei pali piantati nell'acqua e palazzi galleggianti in balìa delle maree.

E quante chiese sarebbero state costruite nei secoli per ringraziare l'Onnipotente di essere scampati alle pesti: prima il Redentore, poi la Salute. Oggi la peste c'è ancora, solo che Venezia non immagina di erigere nuovi templi. Il desiderio è sempre di debellare il male che ammorba e che ammazza, solo che ci si chiede se sarà mai come prima: torneremo ricchi, felici e pieni di turisti?


Ante Covid-19 capitava che il ponte della Libertà venisse chiuso per eccessiva presenza di auto e di pullman e di moto. Oggi i garage di piazzale Roma si inventano formule per accaparrarsi clienti disposti a fermarsi due ore e pagare il minimo possibile. I ristoranti sono chiusi, i bar offrono caffè da asporto e a chi chiede se è possibile utilizzare il gabinetto la risposta è garbata e inflessibile: c'è il coronavirus, non si può. «Ce l'hanno detto anche i carabinieri», racconta Antonio Carpitella che ieri mattina ha riaperto il Pullman Bar, data di avvio dell'attività 1969, giusto per «provare». «Non ho neanche preparato i tramezzini». E infatti l'unica attività che a Venezia continua a tenere le saracinesche alzate è il servizio igienico del Comune: ogni minzione più costa 1 euro e 50 ed è l'unico retaggio dei tempi dell'invasione dei turisti, quando in città calavano 20 milioni di visitatori all'anno e c'era bisogno dei tornelli davanti al ponte di Calatrava per dirigere il traffico pedonale. A pensarci, sembra preistoria.

Venezia durante la prima ondata Covid

 

All'epoca piazzale Roma pareva un suk, ora i pullman partono e arrivano mezzi vuoti. Tra chi lavora c'è la tabaccheria di Mirca Bottazzo: «Non dovrei neanche lamentarmi, abbiamo solo il 50% di perdita del fatturato perché siamo in zona di passaggio e offriamo i servizi di poste e banche, ma ho colleghi che in centro storico pagano 5mila euro di affitto e se gli va bene riescono a vendere 4 pacchetti di sigarette in una giornata». Soldi. Chiedono contributi i commercianti, i pubblici esercenti, gli albergatori. Perché Venezia è una città basata su una sola fonte di reddito, il turismo, e se quella manca finisce tutto a catafascio.


Lo dicono anche Cristina Vio e Francesca Bico, mamma e figlia, seconda e terza generazione che in Strada Nova, a Santa Fosca, gestiscono Al Pupo, un negozio che in questa città di vecchi pare una scommessa: «Siamo qui dal 1939 abbiamo vestito la città». E adesso? «È una ruota. Se mancano i turisti, i veneziani non lavorano perché non c'è una famiglia in questa città che non abbia a che fare con il turismo: gondole, motoscafi, vetrerie, ristoranti, alberghi. E se i veneziani non guadagnano, tutti noi ci fermiamo». I veneziani, che abbiano i muri di proprietà o il canone mensile da versare al padrone, sono la resilienza di Venezia: la gioielleria Boncompagni di Daniele Sacchi, è con il negozio di abbigliamento Pignaton l'unica attività aperta sotto le Procuratie Vecchie in piazza San Marco: «Sa cosa diceva mio nonno? Che qui, anche durante la guerra, c'era la gente che ballava, i caffè erano aperti». Adesso tutti i bar sono chiusi: Lavena, Florian, Chioggia. #nonvatuttobene, hanno scritto gli Alajmo sulla porta del Quadri, chiuso anch'esso. Poi ci sono i grandi che resistono a prescindere: Rolex sotto le Procuratie Nuove, Audemars Piguet di fronte alla Basilica, scrigni d'ori con la guardia giurata davanti alla vetrina: «Sempre stati qui, non c'entra il coronavirus».


Epperò si vedono tanti operai. Ci sono quelli che a San Salvador tolgono la scritta dalle vetrine che fino a ieri hanno ospitato il negozio di lingerie La Perla, chiuso per sempre, quelli che in Bocca di Piazza stanno ristrutturando la boutique di Hermès che riaprirà lunedì e quelli che alle Procuratie Vecchie, su progetto dell'architetto David Chipperfield, stanno lavorando per le Assicurazioni Generali. «Sviluppiamo un'attività non legata al turismo», ha detto a suo tempo il ceo Philippe Donnet. Sembra una scommessa in una città che, orfana di visitatori, fa la conta dei danni: su 150 milioni di euro di ricavi da bigliettazione, l'azienda di trasporti Actv ne ha persi 85 quasi tutti per mancanza di foresti; l'Ava riferisce che tutti i suoi hotel sono chiusi, anche se qualche mosca bianca c'è come lo Splendid Venice che dal 4 giugno si ostina a tenere aperte le porte e ora ospita le troupe delle case cinematografiche che hanno installato set in città, dal film di Tom Cruise a sfilate di moda. E poi i pubblici esercizi che con l'associazione Aepe lamentano un crollo del fatturato del 95%, mentre la Confcommercio vede nero: «Senza contributi da parte dello Stato, in sei mesi resisterà un negozio su 10».


Appunto: come fanno a resistere se il registratore di cassa batte zero? Il tempio del lusso ai piedi del ponte di Rialto è il Fondaco dei Tedeschi, quattro piani di griffe dove fino a un anno fa arrivavano le orientali e facevano sfracelli di carte di credito, adesso le commesse si girano i pollici perché non si vede anima viva e l'unico degli steward che parla più degli altri è quello all'ultimo piano, dove i pochi visitatori salgono per ammirare dalla terrazza i tetti di Venezia con in lontananza le cime innevate. Non vedono clienti le boutique di calle Vallaresso («Avevamo anche quaranta clienti al giorno, adesso se va bene uno») e neanche Ibrahim dal Bangladesh che nella sua edicola di paccottiglie aspetta di vendere una maschera per un Carnevale che non ci sarà: «Facevo 300 euro al giorno, oggi se va bene 2». «Siamo rimasti noi e i piccioni», sorride amara la farmacista di San Moisè e non è neanche del tutto vero perché in Bacino Orseolo, nel famoso parcheggio delle gondole, sono arrivati gli aironi e le garzette danno spettacolo quando a pelo d'acqua affiorano le masse nere di pesci che stanno (ri)popolando la laguna.


«Dovrebbero vaccinare tutti i veneziani e fare di Venezia un porto franco», dice Fiorella Mancini, l'eclettica stilista che in campo Santo Stefano ha riaperto la boutique mettendo in mostra le mascherine anti virus create una decina di anni fa. O forse andrebbe ripensata l'intera base economica della città. Stefano Campagnolo, direttore della biblioteca Marciana, l'unica istituzione della Repubblica Serenissima ancora in attività, ricorda che tra neanche due mesi, il 25 marzo, Venezia compirà 1.600 anni e sarebbe bello se la città potesse esporre i suoi gioielli: il Breviario Grimani, il testamento di Marco Polo, i codici dell'Iliade di Omero. «Ripensare Venezia? Anche sì, potrebbe rinascere».


Però, intanto, com'è dura. Novembre 2019 l'aqua granda, da febbraio 2020 il virus. Annamaria Fiaschi, 80 anni, esce dalla macelleria in Strada Nuova: «Mi lamentavo quando le calli erano piene di foresti, adesso mi viene da piangere. Sì Venezia vuota è uno splendore. Ma che tristezza».

Ultimo aggiornamento: 09:13 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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