Elisabetta Novello le bonifiche in Veneto e Fvg. Se le 400 idrovore smettessero di drenare, un terzo della regione si allagherebbe di colpo

Lunedì 17 Ottobre 2022 di Edoardo Pittalis
Elisabetta Novello
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Dal Po alla Bassa friulana è tutta terra strappata nei secoli all'acqua. Tera e aqua, aqua e tera/ da putini che da grandi/ Siora tera ai so comandi,/ poi a crepare e bonasera, diceva una canzone. Su quasi due milioni di ettari nel Veneto, l'80% di tutta l'area coltivata è gestita dai Consorzi di Bonifica. Se le 400 idrovore smettessero di drenare, un terzo della regione si allagherebbe di colpo.

Ci sono 25 mila chilometri di canali e quattromila di argini. I veneti hanno bonificato la loro terra e quella degli altri, vicino appena oltre il Po, lontano fino all'Agro Pontino, dopo il mare in Sardegna. Lavoro duro: A mezzanotte in punto si sente un gran rumor/ sono gli scariolanti che vengono al lavor.


Braccianti assoldati per una settimana, la domenica notte suonava il corno. La carriola, che serviva per trasportare la terra, era l'unico bene: La mia morosa è la carriola, mi fa da moglie, mi fa da figliola. Quando nella Sardegna Occidentale le Bonifiche Ferraresi costruirono Arborea, i veneti erano la metà dei coloni; la lingua veneta è usata nei documenti ufficiali del Comune. Nell'Agro Pontino su tremila poderi, due terzi furono assegnati a famiglie venete e friulane per un totale di 18 mila componenti che rappresentavano, allora, la metà della popolazione della bonifica. Contro la malaria, quell'anno si distribuirono 22 quintali di Sali di chinino di Stato; le prime rivendite aperte furono quelle di Sali e Tabacchi. Un'epopea che non deve essere dimenticata. Una lezione di storia così importante che l'Università di Padova le ha dedicato un progetto.


A portare avanti l'esperimento che ormai ha messo radici è Elisabetta Novello, 57 anni, nata a Dolo, docente di Storia Economica, esperta di storia sociale e ambientale. È stata tra i fondatori dell'Associazione italiana di storia orale, perché nessun tipo di racconto vada perduto. Promuove TerrEvolute e da cinque anni realizza un Festival della bonifica tra documenti, spettacolo e musica, avvalendosi della regia di Andrea Pennacchi e della collaborazione di musicisti come Mario Brunello. Praticamente di bonifiche venete sa quasi tutto e ne ha parlato in giro per il mondo: a Sydney, a Washington, a San Diego. E alla Boston University cura da anni un programma sui significati dell'acqua.


Com'è nata questa passione per la bonifica?
«La passione è soprattutto per la storia orale e nasce dai racconti di mio padre e di mia madre che erano rimasti segnati dalle vicende della guerra. Mamma, Teodorina Carraro, era veronese, figlia di un ferroviere. Abitavano vicino alla stazione, un bombardamento distrusse la loro casa e il rifugio dove c'erano i genitori e i due fratelli. Lei si era salvata perché al lavoro nella Manifattura Tabacchi. Si è trasferita dai parenti a Dolo dove ha conosciuto mio padre Settimo. Lui ha fatto la campagna di Russia e molte cose le abbiamo sapute da quello che era stato il suo compagno nella ritirata e che noi chiamavamo lo zio di Trieste. Papà non era in prima linea perché lavorava come meccanico; durante la ritirata ha guidato un camion sul quale aveva caricato più commilitoni, nonostante le minacce dei tedeschi. Ricordava di soldati morti assiderati e rimasti come statue di ghiaccio. Ricordava che erano stati accolti e sfamati da una famiglia ucraina. Verso la fine della sua vita, quando si doveva trovare una badante per lui, ne voleva a ogni costo una ucraina. Siamo quattro fratelli, io sono la più piccola. Ci hanno fatto laureare tutti».


Dritta verso lo studio della storia?
«Mi sono iscritta a Lettere a Padova, sentivo dai miei fratelli quello che accadeva in città, erano ancora anni difficili. Ho frequentato i corsi del professor Angelo Ventura sul terrorismo, lui era stato gambizzato dagli autonomi. Mi sono laureata con lui e ho fatto il dottorato di ricerca a Perugia in Storia urbana e sociale, con uno studio sulla bonifica nel Veneto dalla Serenissima ai nostri tempi, tra braccianti, lavoratori delle idrovore, alluvioni, Aqua Granda. Bisogna dare una voce a chi non aveva voce».


Come è il mondo veneto della bonifica?
«Nel marzo scorso abbiamo ricordato il centenario del primo vero convegno delle bonifiche promosso a San Donà da Silvio Trentin. Era la primavera del 1922, c'erano anche don Sturzo, esponenti del governo liberale, intellettuali, tecnici: guardavano tutti al futuro di un Paese che usciva dalla Grande Guerra. Molta parte del territorio veneto era stata allagata per frenare l'invasione: nel novembre del 1918 tutta la zona litoranea dal Piave vecchio al Tagliamento appariva come un immenso stagno. L'opera di ricostruzione e risanamento e di bonifica però iniziò subito».


Per tanto tempo si è detto che le bonifiche erano la grande opera del fascismo...
«Associare la bonifica solo al fascismo è sbagliato. Nell'Italia unita di bonifica si discuteva da più di 40 anni e i primi lavori interessarono anche le province di Venezia e Udine. Indubbiamente il fascismo si impegnò nell'opera di bonifica ed è innegabile che il regime fece del risanamento dell'Agro Pontino una mostra permanente delle proprie realizzazioni, anche attraverso le riprese cinematografiche, coltivando una mitologia dell'opera di bonifica e assieme della razza italica».


Torniamo al presente: c'è bisogno di nuove bonifiche?
«Culturali sì. Oggi si parla di bonifiche per territori inquinati dall'attività industriale che è molto più grave dell'inquinamento dell'agricoltura. Sul recupero dei terreni oggi c'è una prelazione turistica e non più produttiva: conviene utilizzare la terra per una nuova economia, una nuova frontiera soprattutto per i giovani. Il Veneto ha diverse situazioni difficili da gestire e valorizzare: è un territorio che ha tutto dentro, dalle Dolomiti alla laguna e i problemi sono diventati più grandi col cambiamento climatico e con la crisi energetica».


C'è il problema dell'acqua in una regione come il Veneto?
«Nel Veneto, parlo da storica, l'acqua c'è e ci sarebbe anche per il futuro. Solo che bisogna subito adeguare le nostre infrastrutture a una gestione più equilibrata del patrimonio idrico. Dobbiamo pensare a come trattenerla e poi a come gestirla, studiare anche sistemi di irrigazione diversi. Trattenerla gestirla, depurarla, non sprecarla. Sono anche le direttive dell'ottavo Piano Ambientale e per il rischio di inquinamento contenibile. È un fattore di educazione culturale, di far capire quali sono i problemi a una società che non vuole problemi. Ho la speranza di creare una Fondazione culturale dedicata a questi temi e che spinga perché il territorio di bonifica in futuro possa diventare patrimonio Unesco. Il 70% del territorio agricolo veneto è gestito dai Consorzi di bonifica che sono realtà molto importanti, ieri per sottrarre l'acqua delle paludi, oggi per la gestione delle acque e contrastare il rischio idrogeologico. Una Fondazione dove si fa formazione e anche informazione».


In questo come incide l'ateneo padovano?
«Con progetti di ricerca, comitati scientifici, insegnamento diretto, coinvolgimento degli enti del territorio, soprattutto col coinvolgimento dei giovani. Con riviste, pubblicazioni, manifestazioni, documentari, raccolta di testimonianze, studio dei documenti che sono negli archivi dei Consorzi di bonifica. Ricerca-didattica e una terza missione: scendere dalla cattedra per entrare in contatto col territorio, con la divulgazione».


Solo bonifiche nella vita?
«Mi piace molto viaggiare. Poi amo il cinema, il mio film è C'era una volta in America di Sergio Leone. E amo il teatro di Dario Fo e di Giorgio Gaber, quello di Moni Ovadia e mi piace pure Checco Zalone. Poi vorrei riprendere in mano la chitarra, ho incominciato a suonare con mio fratello che mi sopportava con i miei cantautori preferiti: De Andrè, Guccini, Gualtiero Bertelli. Non so quante volte ho cantato Bocca di rosa e Nina. È il momento di ricominciare.

Ultimo aggiornamento: 14:47 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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