«Venezia città-campus, nel futuro non solo turismo ma soprattutto polo universitario»

Lunedì 25 Aprile 2022 di Edoardo Pittalis
Tiziana Lippiello, rettrice di Ca' Foscari (foto unive.it)
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VENEZIA - «Non vado in Cina dal 2019 e voglio vedere come l'ha trasformata il Covid. Ho come l'impressione che abbia fatto un passo indietro, che si sia chiusa in se stessa». Tiziana Lippiello ripartirebbe subito per la Cina, è tra i non molti italiani che la conoscono in profondità. Guida Ca' Foscari, è la prima donna rettrice di un ateneo veneto. Ha aperto la strada, dopo di lei anche Padova ha scelto una donna. Regge un'università con 23 mila studenti, quattromila laureati all'anno; 700 docenti, secondo la media europea dovrebbero essere almeno il doppio. E con un grande problema: «Quella che chiedono gli studenti è la vera opportunità di vivere a Venezia, il 75% di loro non stanno in questo grande campus che è la città, vogliamo portarli qui a socializzare, a vivere Venezia. Bisogna offrire progetti alternativi di lavoro, offrire servizi che mancano e che la rendano una città universitaria a tutti gli effetti.

Anche così si sottrae Venezia a un futuro soltanto turistico».

Sessant'anni, Tiziana Lippiello è nata a San Vito al Tagliamento, al confine tra il Veneto e il Friuli, dove il fiume taglia la pianura e divide terra e lingua. «Infanzia friulana, tre fratelli, papà Vittorio lavorava all'Aeronautica, dopo un incidente sul lavoro è stato trasferito all'Ulss del Veneto Orientale. Così ho fatto le prime classi delle elementari in Friuli e ho proseguito gli studi a Portogruaro, al liceo».

Dal Tagliamento alla Cina, un viaggio un po' lungo?
«Per l'università ho scelto a Ca' Foscari lingue e culture orientali, eravamo in pochi a quel tempo, sembrava un corso di laurea perfino un po' esotico, un privilegio, una cosa che non avrebbe potuto dare sbocchi occupazionali. L'Oriente era visto come una cosa irraggiungibile. Mi sono appassionata più alla lingua classica che a quella moderna e sicuramente sono stati fondamentali i miei professori Alfredo Cadon e Mario Sabatini. Non avrei mai immaginato che la Cina sarebbe diventata quella che è oggi. L'università ci mandava laggiù per un semestre, a spese nostre: l'Erasmus non c'era ancora. Ho vinto una borsa di studio di perfezionamento del ministero degli Affari Esteri e sono andata a Shangai al dipartimento di filosofia, ci sono rimasta un anno e mezzo lavorando anche alla tesi. Dopo la laurea per qualche tempo ho fatto la guida turistica con un'agenzia di Roma, accompagnavo gruppi di italiani in Cina. Ero soprattutto una guida culturale e questo mi ha dato la possibilità di vedere tanti luoghi. Nel frattempo avevo vinto una borsa di studio in Olanda».

Come mai aveva scelto il cinese?
«Avevo interesse per la cultura orientale più che per la lingua. In quegli anni c'erano già i primi imprenditori italiani, si improvvisavano ed era dura. Uno di loro, un torinese col quale sono rimasta in contatto, venne a cercare gli studenti italiani e mi offrì un lavoro part-time in fabbrica come interprete. Produceva contenitori di vetro per farmaci e doveva tradurre in cinese le sue spiegazioni agli operai. Allora c'erano pochi luoghi aperti al turista occidentale, oltre non potevi andare nemmeno con la tessera di studente. In Cina è tutto possibile, è un paese pieno di contraddizioni e sa tenere assieme tutte queste diversità. È difficile descriverlo, anche se è notevolmente cambiato, hanno fatto un salto enorme in poco tempo: non avevano il frigorifero e sono passati direttamente al computer e al cellulare più evoluto del mondo».

Perché in Italia arrivano tanti cinesi?
«Il concetto di tanto e poco è diverso visto dalla Cina, là sono miliardi! Amano la nostra cultura, il nostro stile, il made in Italy. Non dobbiamo identificare la Cina col prototipo del cinese che arriva qui, sarebbe come dire che gli italiani che emigrano sono sempre gli stessi che andavano nelle Americhe cento anni fa con la valigia di cartone e spesso il coltello in tasca. Adesso cominciamo ad avere cinesi da ceti sociali un po' più alti, ci sono tanti professionisti di altissimo livello. In Veneto non abbiamo una grande tradizione di Chinatown, a Milano c'è già un'altra tipologia».

Ma la lingua cinese è davvero così difficile?
«Molto, sì molto. Ci vuole una grande memoria. Non avendo un sistema alfabetico bisogna ricordare caratteri e pronuncia. Questo spiega anche come per un cinese sia difficile la nostra lingua. Dopo averla studiata per anni, quando sono andata là è stato uno choc culturale, ti accorgi che la lingua è diversa. I contatti per imparare, poi, erano limitati dal governo: gli stranieri erano tutti controllati, in quegli anni era durissima, era la vigilia di Tien An Men. Adesso si parla tanto di resilienza, dovevi esercitare uno spirito di adattamento notevole: le lettere da casa arrivavano dopo un mese, telefonare era un'impresa e costava un capitale. Dopo il dottorato in Olanda sono tornata in Italia, ho ripreso i contatti con Ca' Foscari e ho iniziato con un contratto nella sede di Treviso in quella che è oggi la nostra Scuola di economia lingue e imprenditorialità per gli scambi internazionali. Eravamo pochi insegnanti coinvolti in una grande idea lungimirante, tra loro Ulderico Bernardi. Poi ho vinto un concorso a Trieste per insegnare sinologia e lingua cinese classica, fino al rientro a Venezia nel 2000 come associata. Una carriera gradino per gradino».

Ha mai pensato di diventare la prima donna al vertice di un ateneo veneto?
«Non l'avrei mai pensato in gioventù, nemmeno dopo a dire la verità. Sono stati alcuni colleghi a spingermi, ho iniziato a scrivere un programma e ho provato a candidarmi: ho messo la persona al centro, l'internazionalizzazione, la promozione di quella che è la vocazione storica della nostra università. Credo di essermi presentata in modo abbastanza naturale e forse questa è stata la chiave del successo».

La prima cosa che ha pensato?
«Ero abbastanza confusa, ho informato subito le mie figlie Sofia e Alessandra che mi avevano spinto moltissimo. Ero stordita, la prima cosa che ricordo è che i miei elettori sono venuti in rettorato a congratularsi. Abbiamo brindato insieme. Ho iniziato in pieno Covid, adesso cominciamo a vederci, ci sono colleghi che non ho potuto mai vedere in volto».

Che problemi dovete affrontare?
«Per prima cosa perché l'università cresca e insieme cresca la vita nella città, bisogna dare risposta alla richiesta degli studenti di avere una reale opportunità di residenzialità a Venezia. Deve essere una città universitaria a tutti gli effetti, abbiamo bisogno di più spazi per gli studenti, prima di tutto di case. Certo c'è anche il grosso problema delle risorse per l'università, anche se in questo periodo ne arriveranno tante col Pnrr che tra le cose buone porta a una collaborazione con altre università: vogliamo collaborare di più con Iuav, ma anche con Accademia e Conservatorio, si tratta di un progetto che condividiamo tutti e quattro. Ci stiamo anche impegnando in un'alleanza europea. Dobbiamo essere in grado di comunicare quello che facciamo, i nostri laureati si affermano nel mondo e poi non tornano: formiamo talenti che poi consegniamo per la vita ad altri paesi. Formarsi all'estero fa bene, dona spirito di adattamento che solo il confronto con altre culture aiuta a creare, ma è bello riportare le competenze nel proprio paese».

E adesso con la guerra?
«La guerra si è aggiunta al Covid, creando una situazione di ulteriore sconcerto. Come Senato accademico abbiamo preso una posizione precisa. Abbiamo 74 studenti ucraini, alcuni vivevano già in Italia; abbiamo attivato misure di sostegno anche con l'aiuto di privati. La prima volta che abbiamo incontrato gli ucraini arrivati dopo la guerra, loro ci hanno chiesto di aiutare pure gli studenti russi in difficoltà. I giovani sono più solidali di noi».

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