Giovane sinti non vuole rubare e fa arrestare tutta la famiglia

Mercoledì 13 Maggio 2020 di Davide Tamiello
carabinieri
VENEZIA - Aveva deciso di ribellarsi a quella vita fatta di furti e violenze. Vent'anni, un secondo figlio in arrivo, nata in una famiglia nomade e sposata con il primogenito di un'altra famiglia di sinti di Cavarzere (Venezia) con un nutrito passato (e presente) criminale. Lei, però, di andare a rubare non ne aveva nessuna intenzione e il marito, per tutta risposta, la riempiva di botte. Nemmeno il fatto che fosse incinta bastava a fermarlo. A quel punto la ragazza ha scelto di non accettare quel destino imposto e già scritto per lei ancor prima della sua nascita: ha preso coraggio e ha suonato il campanello alla caserma ai carabinieri. Da lì è iniziata la sua vendetta, che ha dato il nome all'operazione Revenge dei carabinieri, che ieri all'alba ha portato all'arresto di otto persone (quindici gli indagati, tra cui quattro minorenni) per associazione a delinquere, furto aggravato, ricettazione, indebito utilizzo di carte di pagamento, maltrattamenti in famiglia, lesioni personali, acquisto e vendita di armi e munizioni.
LA VENDETTA
Un lungo racconto con cui la giovane sinti ha rivelato agli inquirenti il modo di operare di quella famiglia allargata, come la definisce il gip Massimo Vicinanza nell'ordinanza di custodia cautelare. I capi erano i suoi suoceri, Diego Fulle, 45enne, e Bruna Hodorovich, 44 anni. Il marito, Patrik Hodorovich, 27 anni, era il loro delfino. I tre sono finiti in carcere, così come altri elementi della famiglia, sia loro sia quella d'origine della giovane, Gesovel Fulle, 22 anni di Cavarzere, Emanuel Levacovic, 23 anni di Mestre, e il ricettatore ufficiale del gruppo, Hicham Benaicha, 44enne marocchino residente a Noventa Padovana. Ai domiciliari altre due giovani parenti della ragazza, Saina Levacovic, 25enne di Mestre e Sara De Bianchi, 22enne di Favaro Veneto. Mestre, in particolare il rione Pertini, era la loro base operativa: gran parte dei furti era stata messa a segno in questa zona.
L'indagine del nucleo investigativo dei carabinieri di Venezia, coordinata dal pubblico ministero lagunare Giorgio Gava, era partita nel settembre del 2018. Dalle dichiarazioni della giovane si era arrivati alla conferma che quella, effettivamente, era una banda specializzata nei furti in casa o nelle auto in sosta. Oltre cento colpi tra le province di Venezia, Verona, Padova, Ferrara, Rovigo e Mantova per un ammontare di circa mezzo milione di euro. I carabinieri, nel corso delle perquisizioni di ieri, sono riusciti a recuperarne circa un quinto: 100mila euro di refurtiva di vario genere. Il gruppo faceva la spola tra la zona di Cavarzere e un campo sinti del Veronese. La merce rubata veniva affidata a Benaicha, che aveva il compito di spedirla in Marocco per poi tornare il contante alla famiglia. «Il suo ruolo - spiega il comandante provinciale dei carabinieri di Venezia, Mosè De Luchi - era appunto quello del ricettatore. Doveva stivare la merce, metterla al sicuro e rivenderla in patria a dei suoi contatti fidati».
I PRELIEVI
Il piatto forte della casa, però, stando alle ricostruzioni degli investigatori, erano i furti in auto. I componenti della banda si appostavano nei parcheggi di supermercati e cimiteri, aspettavano che il proprietario si allontanasse (meglio se anziano) per poi sfondare il finestrino o forzare la serratura e impossessarsi di ciò che veniva lasciato sui sedili. Spesso nelle borse trovavano sia il portafoglio sia il codice per il bancomat: la strategia quindi era andare di corsa a uno sportello prima che la vittima riuscisse a bloccare la tessera. Un trucchetto che, solo con questi prelievi, aveva fruttato alla banda un bottino di circa 50mila euro. «È fondamentale - precisa il comandante del reparto operativo dei carabinieri, Emanuele Spiller - che le persone sappiano che è pericolosissimo lasciare i codici del bancomat a portata. Memorizzateli o trovate altri sistemi, altrimenti questi criminali avranno la strada spianata».
RINNEGATA
La ventenne ha avuto un coraggio da leone. Prima gli insulti, i maltrattamenti e le violenze per l'insolente rifiuto di partecipare ai colpi, poi la famiglia che le gira le spalle. Non solo i suoceri (quello era abbastanza scontato) ma persino i genitori la rinnegano per aver denunciato. «Mangia morti», così la definisce il padre, con l'offesa peggiore che esista per un nomade. È sempre l'uomo a lanciare un appello sui social per ritrovare quella «figlia che fa la ruffiana». E in un modo o nell'altro, quasi ci riescono: l'asse tra le due famiglie scopre che la giovane è in una casa famiglia di Treviso e parte la spedizione per riportarla a casa, così le forze dell'ordine organizzano in fretta e furia un nuovo trasferimento in un'altra struttura, questa volta fuori regione. Qui dovrà essere tenuta al sicuro a lungo, anche quando quella famiglia che ormai non le appartiene più uscirà dal carcere.
Ultimo aggiornamento: 14 Maggio, 07:24 © RIPRODUZIONE RISERVATA
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