Rubelli, sete e tessuti preziosi fin dal 1700: Andrea e i fratelli sono la quinta generazione

Lunedì 1 Agosto 2022 di Edoardo Pittalis
Rubelli tessute e sete

VENEZIA - Questa è la quinta generazione dei Rubelli che da Venezia va in giro per il mondo a vendere tessuti.

Il Damasco di San Marco o il San Polo in 16 colori, uno per ogni secolo di storia veneziana, abbelliscono le botteghe del gran lusso a New York, a Parigi, a Dubai. Dopo il rogo, la Fenice è stata rifatta soltanto con tessuti Rubelli ispirati a disegni degli Anni Trenta e per le poltrone è stato recuperato un frammento di tessuto rosa che si era perduto. La lavorazione e il commercio del tessuto fanno parte della grande tradizione veneziana ancora prima di Marco Polo e della Via della seta.


La Serenissima sapeva fare bene i suoi affari, profittando delle guerre tra Guelfi e Ghibellini portò a casa lavoranti e strumenti toscani e mise insieme un colosso seta-lana. Nel rinascimento Venezia era la capitale della moda, aveva migliaia di telai e, attorno all'industria più importante, cresceva l'indotto: sarti, tintori, calegheri, gioiellieri, profumieri, ottici. Fu l'Austria nell'Ottocento a delocalizzazione: così la lana emigrò nella Pedemontana, la gioielleria nel Vicentino, l'occhialeria nel Bellunese, la calzatura nella Riviera del Brenta. Per la seta gli Austriaci puntarono tutto sulle filande lombarde e fecero di Como una potenza; ancora oggi è il distretto numero uno del mondo occidentale. La Rubelli spa ha conservato il negozio e la casa storica nel cuore di Venezia, a San Samuele, ma ha la sede a Marghera e i telai sono a Cuggiago nel Comasco. Ha un fatturato di 35 milioni di euro, 170 dipendenti solo in Italia. «Facciamo tessuti per arredamenti, che rappresentano l'85% del nostro business, e una divisione mobili. Siamo presenti in tutto il mondo, siamo una piccola multinazionale tascabile, formato italiano. Abbiamo ancora cinque telai a mano, ma anche i macchinari più moderni del mercato», dice il veneziano Andrea Favaretto Rubelli, 52 anni. È lui che rappresenta la quinta generazione, col fratello Nicolò, anche se la presidenza è saldamente nelle mani del padre Alessandro, 91 anni a Ferragosto: «Quando c'è lui il capo è lui e non si discute». È stato il patriarca a far aggiungere al cognome Favaretto anche quello di Rubelli, grazie a un decreto del Presidente della Repubblica.

Quando il primo Rubelli si è affacciato a Venezia?
«Cesare Rubelli figura in un documento del 1706, è la bolla di pagamento per aver tinto le vele della Serenissima di rosso. Magari il cognome viene proprio dal colore rosso, rubio. Passa un bel po' di tempo, fino a quando nel 1889 si incontra Lorenzo Rubelli, commerciante di tessuti e tappeti, spesso in viaggio al seguito dello zio ambasciatore dell'Austria. Rientrato a Venezia, sposato tre volte, compra l'azienda di Giobatta Trapolin, c'è una fondamenta Trapolin alla Misericordia, che faceva anche passamaneria ed era nata agli inizi del secolo dopo aver acquisito la Giacomo Panciera, altra azienda storica veneziana. Questa è la vera antenata della Rubelli: dalla Panciera abbiamo preso 70 telai Jacquard, rivoluzionari nell'Ottocento: erano le prime macchine al mondo a leggere le istruzioni dei disegni e a eseguirle».

E siamo al Novecento
«Di fatto è stato il figlio Dante Zeno a sviluppare l'azienda nella prima metà del 900 aprendo negozi in Italia e commerciando col mondo, collaborando negli anni Venti e Trenta con artisti e designer che esponevano alla Biennale, come Gio Ponti. Nel dopoguerra, alla sua morte sono rimaste le figlie Gabriella e Luisa, la prima è mia nonna e ha sposato Gino Favaretto. È stato il loro figlio Alessandro, mio padre, che faceva l'avvocato, a prendere in mano e salvare l'azienda negli Anni '50. Mio padre ha avuto un'intuizione importante: ha chiamato uno stilista francese e gli ha affidato il rilancio e quello in vent'anni ha stravolto e rinfrescato l'immagine della Rubelli e ha aperto la prima filiale a Parigi nel 1976. È incominciata l'internazionalizzazione: negli Usa, in Inghilterra, in Germania, a Dubai. Poi mio padre ha allargato la produzione ad alberghi e i teatri, creando linee apposite, ignifughe».

Lei quando è entrato in azienda?
«Eravamo a Venezia, abbiamo respirato tessuti e seta da bambini. D'estate ci portavano ad attaccare etichette che si facevano a mano o con una macchina per scrivere. Sono l'ultimo di quattro fratelli. I miei ricordi di ragazzino sono legati all'altra mia passione, la voga veneta: a dieci anni con alcuni coetanei giravamo per i rii di Venezia con il sandolo. Mi piaceva fare lavori manuali, tiravamo su la barca d'estate alla Madonna dell'Orto dove c'erano i telai Rubelli, andavo a sistemare la barca e passavo un po' di tempo nello stabilimento. La prima Vogalonga l'ho disputata a 13 anni con un coetaneo, barando sull'età. Da questa passione è nata anche l'altra, quasi per caso. Ma tutta la mia carriera è nata dal caso, non pianificata a tavolino. All'università ho scelto di fare ingegneria elettronica a Padova, attratto da quelle che erano le novità. E quando sono arrivato alla laurea ho sostituito il servizio militare con un anno di lavoro all'estero e mi sono dedicato alla filiale francese a tempo pieno, installando i primi pc. Al ritorno a Venezia abbiamo rinnovato l'informatica e la tecnologia ed è stato un vortice, con acquisizioni di marchi e di fusioni in Italia e all'estero. Poi si è deciso di unificare la produzione a Como, un processo che richiedeva la presenza sul posto. Fino all'America».

Come è stata la lunga esperienza americana?
«Nel 2005 papà ha acquisito la maggioranza di una grossa azienda negli Usa. Due anni dopo c'è stata la pesante crisi partita proprio dagli Usa, per otto anni tra grosse difficoltà sono stato a seguire da vicino la parte americana. Già fare il pendolare era un problema: la famiglia era rimasta qua, mia moglie Sandrina e mio figlio Leonardo che oggi ha 12 anni, lui è uno dei tre della sesta generazione con i due figli di mia sorella. Una media di 18 viaggi andata e ritorno all'anno, il fisco americano ti costringe a contare i giorni in cui sei presente sul territorio. Un'esperienza molto densa e fisicamente stressante che si è conclusa quando mio fratello Nicolò ha preso in mano la parte americana; oggi è amministratore delegato in Italia. Al rientro mi sono focalizzato sui nuovi sviluppi, specie quelli legati ai famosi negozi di moda e questo si è dimostrato un settore con enormi potenzialità: i grandi marchi del lusso, alle strette per Covid e per e-commerce, hanno pensato bene di investire sui loro negozi rendendoli più belli. Quest'anno si arriverà ai livelli pre-Covid. Nel frattempo, ho creato una start-up nel mondo dell'illuminazione, che sfrutta il tessuto per diffondere la luce».

E oggi cosa distingue la Rubelli?
«Questa è un po' l'impostazione della Rubelli oggi: 40% alberghi, 60 residenze. Avendo dietro una piccola industria siamo molto flessibili, pronti ad adattare prodotti alle nuove esigenze. Il tessuto più richiesto è il Damasco di San Marco, damasco al cento per cento di seta, lavorazione irregolare che rende la superficie un po' increspata. Rimaniamo fondamentalmente legati ai colori classici: rosso, oro, blu, verde, quelli utilizzati sempre nella storia della seta. Abbiamo aggiunto il San Polo, ne riprende il disegno riducendolo, lanciato per i 1.600 anni di Venezia, presentato in 16 colori uno per ogni secolo della Serenissima. Non ci sarebbe Rubelli senza Venezia, portare la venezianità nel mondo è uno dei nostri punti di forza. Il filo conduttore che denota la venezianità del prodotto è questo venire disegnato valorizzando la bellezza e il fascino dell'imperfezione. L'imperfezione è arte fatta apposta per resistere».

Ultimo aggiornamento: 2 Agosto, 08:27 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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